Un caso esemplare di trasformazione indebita del divieto di abuso del diritto in norma impositiva in bianco

Un caso esemplare di trasformazione indebita del divieto di abuso del diritto in norma impositiva in bianco

Corr. Trib. 22/2012, pag. 1670 e segg.

Il divieto di abuso del diritto fiscale, non trovando fonte nel dettato di una chiara e precisa norma di legge, si presta ad essere indebitamente utilizzato dall’Amministrazione finanziaria per introdurre «ex post» nuovi obblighi impositivi, sorprendendo il contribuente che non ne aveva previsto l’esistenza, per di più con il risultato di aggirare la riserva di legge relativa in materia tributaria. Ed infatti nel caso «Dolce e Gabbana» tale divieto è stato utilizzato per assoggettare a tassazione a valore normale la plusvalenza realizzata mediante una vendita di marchi posta in essere al di fuori dell’esercizio d’impresa, pur in mancanza di una fattispecie impositiva che legittimasse tale tassazione.

Notevole interesse suscita sul piano penale la sent. 28 febbraio 2012, n. 7739, pronunciata dalla Cassazione penale sul caso «Dolce e Gabbana» (1), in quanto è una delle prime sentenze che prendono posizione sulla questione della rilevanza penale dell’abuso del diritto fiscale. Tuttavia non minore interesse suscita la questione tributaria che ne costituisce la base in quanto è un caso esemplare di indebita trasformazione del divieto di abuso del diritto in norma impositiva in bianco. Pertanto, dopo aver ricostruito gli esatti termini della questione, per quanto può arguirsi dal testo della sentenza, ci si soffermerà nell’esame della predetta questione.

I fatti di causa

Nel corso del mese di marzo 2004, la D&G s.r.l., partecipata con quote paritarie dai due stilisti, assumeva una partecipazione pressoché totalitaria nella Dolce&Gabbana Luxembourg s.a.r.l., che, a sua volta, costituiva la Gado s.a.r.l. con sede in Lussemburgo. Alla fine del mese di marzo 2004 gli stilisti vendevano alla Gado i marchi di cui erano titolari come privati al prezzo di 360 milioni di euro, da pagarsi in sette rate. Nel mese di luglio 2004 la Gado concedeva in licenza i marchi alla Dolce&Gabbana s.r.l. dietro il pagamento di royalties commisurate al suo fatturato.

Le imputazioni penali a carico degli stilisti

A carico degli stilisti sono state formulate l’imputazione di truffa aggravata ai danni dello Stato e quella di infedele dichiarazione. Secondo la prima imputazione costoro avrebbero venduto i marchi di cui erano titolari ad un prezzo inferiore al loro valore normale, quantificabile secondo l’Amministrazione finanziaria in circa 1,2 miliardi di euro, ma continuando ad essere i beneficiari effettivi dei marchi stessi e quindi percettori delle royalties attraverso D&G s.r.l. con artifizi e raggiri consistenti, fra l’altro, nel frapporre uno schermo territoriale estero, per impedire l’applicazione delle imposte italiane su redditi prodotti in Italia, in quanto la reale titolarità dei marchi, attraverso la catena societaria, risalirebbe alle persone fisiche residenti in Italia apparentemente cedenti, inducendo così in errore l’Amministrazione finanziaria sulla natura estera del soggetto giuridico titolare dei marchi e quindi sull’insussistenza dell’obbligo di corrispondere le imposte allo Stato italiano, si procuravano un ingiusto profitto, sottraendosi all’obbligo del pagamento di IRES, IRAP ed IVA per i periodi d’imposta 2004 e 2005. Per la seconda imputazione gli stilisti avrebbero indicato nella dichiarazione annuale dei redditi per il periodo d’imposta 2004 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo poiché, oltre al prezzo convenuto per la vendita dei marchi, avrebbero conseguito un provento «in natura» imponibile costituito dal maggior valore delle quote societarie.

La sentenza della Cassazione penale

La Cassazione penale se, da un lato, ha escluso che gli stilisti possano ritenersi imputabili del delitto di truffa aggravata in quanto i delitti fiscali di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 si pongono in rapporto di specialità rispetto ai delitti comuni, dall’altro lato, ha invece concluso che l’elusione può assumere rilevanza penale, ma soltanto se «corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge».

Le due contestazioni dell’Agenzia delle entrate a carico degli stilisti

Stando a quanto può arguirsi dalla sentenza della Cassazione penale e della Commissione tributaria provinciale di Milano (2), la duplice contestazione formulata dall’Agenzia delle entrate a carico dei due stilisti è quella di aver realizzato un abuso del diritto fiscale, assoggettando ad IRPEF come redditi diversi, ai sensi dell’art. 67 del T.U.I.R., i proventi derivanti dalla vendita dei marchi per un importo inferiore al loro supposto valore normale, e sottraendo ad IRES, IRAP ed IVA i proventi conseguiti mediante la concessione in licenza dei marchi dalla società acquirente che sarebbe solo apparentemente residente in Lussemburgo.

L’omesso assoggettamento ad IRPEF del maggior valore normale dei marchi venduti rispetto al loro valore normale

La prima contestazione fiscale non si comprende. I proventi realizzati mediante la cessione a titolo oneroso di marchi non sono configurabili come redditi diversi ai sensi dell’art. 67 del T.U.I.R. La lett. g) di tale disposizione, include in tale categoria i soli «redditi derivanti dall’utilizzazione economica» dei soli beni immateriali ivi specificamente indicati e cioè «di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico».

Ebbene, sembra innanzitutto da escludere che la vendita di un bene immateriale dia luogo ad una modalità di «utilizzazione economica» del bene stesso in quanto ne comporta l’alienazione definitiva e non l’impiego. È significativo rilevare in questo senso che, secondo il Commentario OCSE all’art. 12 del Modello di convenzione fiscale, relativo ai canoni per l’uso e la concessione in uso di beni immateriali, «nel caso in cui la remunerazione è pagata per il trasferimento della piena proprietà dei diritti di privativa, il pagamento non rappresenta una royalty e le disposizioni dell’articolo non sono applicabili» in quanto, «laddove la proprietà dei diritti è stata alienata in tutto o in parte, la remunerazione non può essere per l’uso dei diritti». Del resto, l’Italia ha sposato questa tesi, osservando che «i pagamenti in contropartita del trasferimento della proprietà di un elemento menzionato nella definizione di royalties rientrano nell’ambito di applicazione» dell’art. 12 soltanto «laddove sia trasferito qualcosa meno della piena proprietà».

Comunque, nell’elenco dei beni immateriali la cui utilizzazione economica dà luogo a redditi diversi ai sensi della lett. g) dell’art. 67 del T.U.I.R., come pure del resto nell’elenco di quelli la cui utilizzazione economica, se posta in essere dall’autore od inventore, dà luogo a redditi di lavoro autonomo, ai sensi della lett. b) dell’art. 53 del T.U.I.R., non risultano inclusi i marchi. Tale mancata inclusione risponde ad una precisa scelta legislativa, posto che la lett. c) dell’art. 23, comma 2, del medesimo T.U.I.R. li include, invece, nell’elenco dei redditi che si considerano prodotti in Italia da parte di non residenti.

Una chiara conferma in questo senso si trae dalla relazione illustrativa dell’art. 49 dello schema di T.U.I.R. del 1986 da cui l’art. 53 del T.U.I.R. del 2003 trae origine. Nella predetta relazione si legge infatti che «ai redditi derivanti dall’utilizzazione di marchi di fabbrica o di commercio non si può riconoscere né natura di redditi di lavoro autonomo, né quella di redditi diversi dato che l’utilizzazione dei marchi d’impresa (mediante cessione o concessione in uso) avviene o in sede di trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive e quindi nell’esercizio d’impresa [salvo ipotesi marginali per le quali potrà evidentemente soccorrere l’ampia previsione dell’art. 81, n. 11]» e cioè la previsione relativa ai redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere. Pertanto, nel 1986, il legislatore ha deliberatamente deciso di escludere l’imponibilità dei predetti redditi a carico dei privati, reputando che la «cessione e concessione in uso» dei marchi non potesse che essere effettuata nell’esercizio d’impresa congiuntamente al trasferimento di un’azienda o di un ramo d’azienda. L’art. 2573 c.c., nella formulazione pro tempore vigente, non consentiva infatti di cedere il marchio separatamente dall’azienda o dal ramo d’azienda cui accedeva. Inoltre, il legislatore, nelle ipotesi marginali in cui un privato avesse conseguito proventi in dipendenza della «cessione o concessione in uso» di un marchio, ha ritenuto che tali proventi potessero risultare imponibili come redditi diversi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere. Ciò evidentemente nel presupposto che il privato avrebbe potuto assumere dietro corrispettivo, obblighi di fare, non fare o permettere per procurarne la cessione o concessione in uso da altri congiuntamente ad un’azienda o ramo d’azienda.

SOLUZIONI INTERPRETATIVE
Valutazione a valore normale
L’obbligo di valutare a valore normale le cessioni di beni e le prestazioni di servizi è previsto dal comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. soltanto per quelle rese a società non residenti da imprese residenti, ma non anche da privati. D’altro canto, tale obbligo non può neppure scaturire dal comma 3 dell’art. 9 del T.U.I.R. Stando a quanto emerge dal suo chiaro dettato, quest’ultima disposizione si limita soltanto a definire la nozione di valore normale e prevede l’obbligo di valutare a valore normale i soli conferimenti di beni in società o altri enti e, comunque, non le prestazioni di servizi. Del resto, il legislatore, quando ha inteso introdurre un siffatto obbligo, lo ha fatto in via espressa.

Nel 1992, e quindi dopo l’approvazione del T.U.I.R., l’art. 2573 c.c., nella formulazione attuale, come emendata dall’art. 83 del D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, stabilendo che «il marchio può essere trasferito o concesso in licenza per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato», ha consentito di cedere e concedere in licenza il marchio anche separatamente rispetto all’azienda o ramo d’azienda a cui acceda. Di conseguenza, in virtù di questa modifica legislativa, anche per i privati è diventato possibile acquistare e cedere marchi.

Sennonché il legislatore, pur avendo ripetutamente modificato le disposizioni del T.U.I.R., anche dopo il 1992, non ha nuovamente incluso anche i redditi derivanti dall’utilizzazione di marchi nell’elenco delle fattispecie imponibili come redditi diversi ai sensi della lett. g) dell’art. 67 del T.U.I.R. Di conseguenza, tali redditi non possono che reputarsi imponibili come redditi diversi in quelle sole ipotesi in cui siano riconducibili nella fattispecie residuale dei redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere. L’art. 1 del T.U.I.R., sancendo il principio di tassatività delle fattispecie di redditi imponibili, ove identifica il presupposto dell’IRPEF nel «possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’articolo 6», non consente di assoggettare a tale imposta anche redditi non riconducibili in una fattispecie imponibile (3).

Ebbene, stando a quanto può arguirsi dalla sentenza della Cassazione e della Commissione tributaria provinciale di Milano, la contestazione formulata dall’Agenzia delle entrate a carico degli stilisti sembra quella di non aver assoggettato ad IRPEF fra i redditi diversi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere il maggior valore normale dei marchi venduti a Gado rispetto al prezzo percepito (4).

Sennonché tale contestazione non è condivisibile. I contratti di vendita di marchi che, come appunto nel caso di specie, già appartengano al venditore, sono ad effetti reali, e comportano dunque l’immediato trasferimento della relativa titolarità. Pertanto, tali contratti danno luogo agli effetti civilistici e, quindi, anche agli effetti delle imposte sui redditi, ad una cessione a titolo oneroso di beni e non ad una prestazione di servizi, in mancanza di un’espressa statuizione legislativa, quale quella prevista dall’art. 3 del D.P.R. n. 633/1972, che considera tali, fra l’altro, anche «le cessioni … relative a marchi».

LA GIURISPRUDENZA
Divieto di abuso del diritto e riserva di legge in materia tributaria
La Corte di cassazione ha sostenuto che il divieto di abuso del diritto non può ritenersi contrastante con la riserva di legge in materia tributaria di cui all’art. 23 Cost. in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali e che l’inopponibilità determina unicamente l’esclusione della rilevanza, ai fini della effettiva imposizione, delle illegittime conseguenze fiscali dello specifico presupposto

Comunque, anche nell’ipotesi in cui il venditore di marchi assuma obbligazioni di fare, non fare o permettere, tali obbligazioni sono strumentali alla cessione della titolarità del marchio. Pertanto, anche in una siffatta ipotesi, il relativo prezzo di vendita trova diretta contropartita nella cessione medesima.

Ma vi è di più. Ammesso e non concesso che i proventi derivanti dalla vendita di marchi siano configurabili come redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere e, quindi, da una prestazione di servizi, è da escludere che, nel caso di specie, possa essere ripreso a tassazione a tale titolo l’eventuale maggior valore normale del marchio ceduto rispetto al prezzo di vendita. L’obbligo di valutare a valore normale le cessioni di beni e le prestazioni di servizi è previsto dal comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. soltanto per quelle rese a società non residenti da imprese residenti, ma non anche da privati. D’altro canto, tale obbligo non può neppure scaturire dal comma 3 dell’art. 9 del T.U.I.R. Stando a quanto emerge dal suo chiaro dettato, quest’ultima disposizione si limita soltanto a definire la nozione di valore normale («per valore normale … si intende») e prevede l’obbligo di valutare a valore normale i soli conferimenti di beni in società o altri enti (5) e, comunque, non le prestazioni di servizi (6). Del resto, il legislatore, quando ha inteso introdurre un siffatto obbligo, lo ha fatto in via espressa (7).

Ed ancora, è da escludere che il preteso aumento di valore della partecipazione conseguente all’acquisto da parte di Gado dei marchi ad un prezzo inferiore al suo valore normale possa risultare qualificabile come un provento in natura. Un reddito in natura può configurarsi soltanto se al contribuente siano attribuiti beni o servizi e non anche se si incrementi il valore economico di una partecipazione da lui già posseduta. Tant’è vero che il primo periodo dell’art. 9, comma 2, del T.U.I.R. statuisce espressamente che «i proventi in natura sono valutati in base al valore normale dei beni e dei servizi da cui sono costituiti».

Infine, l’Amministrazione finanziaria non può riprendere a tassazione a valore normale la vendita dei marchi neppure ai sensi del terzo comma dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, ove statuisce che «l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione … possono essere desunte … anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti». Ed infatti, anche a voler ammettere che il semplice divario fra il prezzo di cessione di un bene ed il suo valore normale possa di per sé fondare la presunzione secondo cui siano stati pagati in nero corrispettivi superiori a quelli dichiarati, pur in mancanza di ulteriori indizi – il che è stato autorevolmente negato (8) – nel caso di specie, non è stato contestato agli stilisti di aver ricevuto corrispettivi in nero dalla Gado.

IL PROBLEMA APERTO
Rilevanza penale per la cessione del marchio
Non si vede come una contestazione di abuso del diritto fiscale per mancata tassazione a valore normale di una vendita di marchi possa assumere rilevanza sul piano penale anche quando, come nel caso affrontato dalla Cassazione penale nella sentenza n. 7739 del 2012, non può essere giustificata dall’aggiramento di alcun divieto previsto da una norma di legge, vigendo per i privati un principio di tassatività delle fattispecie imponibili e delle fattispecie di tassazione a valore normale. In uno stato di diritto, non si dovrebbero irrogare sanzioni penali sulla base della ricostruzione operata «ex post» dall’Amministrazione finanziaria di una pretesa volontà legislativa non obiettivata da alcuna norma di legge.

Né d’altro canto l’Amministrazione finanziaria può reputarsi legittimata a riprendere a tassazione il maggior valore normale dei marchi rispetto al prezzo di vendita in forza del divieto di abuso del diritto fiscale. È orientamento della Cassazione che tale divieto consente ad essa di considerare a sé inopponibili le operazioni abusive, disconoscendo i vantaggi fiscali fruiti dal contribuente, ma non anche di rimodularne liberamente gli effetti. La Suprema Corte, sulla scorta dell’insegnamento della Corte di giustizia (9), ha infatti sostenuto che il divieto di abuso del diritto non può «ritenersi contrastante con la riserva di legge in materia tributaria di cui all’art. 23 Cost. in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali» (10) e che «l’inopponibilità … determina unicamente l’esclusione della rilevanza, ai fini della effettiva imposizione, delle illegittime conseguenze fiscali … dello specifico presupposto: le regole di imponibilità e di concreta imposizione dei presupposti che residuano dall’esclusione, infatti, restano sempre e soltanto quelle comuni ordinarie determinate dal legislatore» (11). Pertanto, il predetto divieto non può consentire di riqualificare una vendita di marchi come una prestazione di servizi ed assoggettare ad IRPEF i proventi che ne derivano per un ammontare superiore rispetto al prezzo percepito (12). Diversamente, infatti, come riconosciuto dalla stessa Cassazione, si legittimerebbe una palese e grave violazione della riserva di legge in materia tributaria in quanto l’Amministrazione finanziaria, rimodulando a suo piacimento gli effetti delle operazioni abusive, diventerebbe arbitra di decidere l’an ed il quantum dell’imposizione (13). Con il risultato che il divieto di abuso del diritto si presterebbe ad essere utilizzato come una norma impositiva in bianco con cui introdurre ex post nuove fattispecie impositive. Comunque, il divieto di abuso del diritto non può ritenersi invocabile nel caso di specie per il fatto che il preteso vantaggio tributario realizzato dagli stilisti mediante la vendita dei marchi non sembra di per sé qualificabile come indebito, non vigendo in materia di IRPEF, per quanto si è detto, un principio di onnicomprensività della tassazione, per la tassatività delle fattispecie di redditi imponibili e di imposizione a valore normale a carico dei privati.

La residenza fiscale estera della società lussemburghese acquirente dei marchi

La fondatezza della seconda contestazione sull’apparente residenza fiscale lussemburghese di Gado risulta difficilmente valutabile, dipendendo dall’apprezzamento di elementi di fatto non desumibili dalla sentenza della Cassazione penale.

Rimane fermo però che, perché tale residenza estera possa essere disconosciuta, occorre che tale società abbia la sede di direzione effettiva in Italia ai sensi dell’art. 4 della convenzione con il Lussemburgo e, ove l’abbia in Lussemburgo, che sia configurabile come una «costruzione di puro artificio» in quanto corrisponda ad «un’installazione fittizia che non esercita alcuna attività economica effettiva sul territorio dello Stato membro di stabilimento», avuto riguardo ad «elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, relativi, in particolare, al livello di presenza fisica … in termini di locali, di personale e di attrezzature» (14), non esistendo «alcuna correlazione proporzionale tra le attività apparentemente svolte … e la misura in cui tale società esiste fiscalmente in termini di locali, personale e attrezzature» (15). Pertanto non basta che l’organizzazione non sia proporzionata all’attività svolta, ma occorre che manchi qualunque proporzionalità fra le due.

Tuttavia anche la seconda contestazione fiscale non manca di sollevare perplessità. Anche a prescindere dal fatto che è inconcepibile considerare apparente una vendita di marchi che si pretende di tassare a valore normale, non si comprende perché la contestazione della residenza fiscale lussemburghese di Gado sia stata fondata sull’abuso del diritto, sebbene sia stato sostenuto che la sua sede di direzione effettiva era in realtà in Italia e che quindi sarebbero state disattese le disposizioni in materia di residenza fiscale. Inoltre, il maggior imponibile accertabile dovrebbe comunque essere limitato alla differenza fra i canoni derivanti dalla licenza dei marchi e le quote di ammortamento del maggior valore normale attribuito ai marchi (16).

Sulla contestazione penale a carico degli stilisti per la cessione del marchio

Le criticità prima evidenziate sulla contestazione fiscale relativa alla vendita dei marchi minano la fondatezza anche della relativa imputazione penale formulata a carico degli stilisti. Tuttavia tale imputazione penale sembra infondata indipendentemente dalle predette criticità.

Una contestazione di abuso del diritto fiscale anche nell’ipotesi in cui sia giustificata dall’aggiramento di un divieto sancito da una specifica norma di legge, secondo quanto prescrive l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (17), ben difficilmente potrebbe assumere rilevanza penale, anche stando all’orientamento espresso dalla Cassazione penale. Ed infatti, tale contestazione implicherebbe il ricorso ad un procedimento interpretativo che comporta l’estensione alla condotta contestata di un divieto dettato per altra condotta che, pur consentendo il conseguimento di consimili risultati giuridici, sarà nella più parte dei casi difforme rispetto ad essa. Pertanto, non sarebbe soddisfatta la condizione individuata nella sentenza richiamata per la rilevanza penale dell’elusione in quanto mancherebbe una specifica norma di legge che espressamente consideri elusiva la condotta del contribuente.

Sennonché non si vede proprio come una contestazione di abuso del diritto fiscale per la mancata tassazione a valore normale di una vendita di marchi possa assumere rilevanza sul piano penale anche quando, come appunto nel caso di specie, non può essere giustificata dall’aggiramento di alcun divieto previsto da una norma di legge, vigendo per i privati un principio di tassatività delle fattispecie imponibili e delle fattispecie di tassazione a valore normale. Ed infatti, in uno stato di diritto, non dovrebbero irrogarsi sanzioni penali sulla base della ricostruzione operata ex post dall’Amministrazione finanziaria di una pretesa volontà legislativa non obiettivata da alcuna norma di legge (18). Ben venga dunque l’art. 5 del disegno di legge delega per la revisione del sistema fiscale approvato il 16 aprile 2012 dal Consiglio dei Ministri, laddove delega fra l’altro il Governo ad escludere «la rilevanza penale dei comportamenti ascrivibili a fattispecie abusive»

Note:

(1) In Banca Dati BIG Suite, IPSOA. Si veda a questo riguardo, P. Corso, «Una elusiva sentenza della Corte di cassazione sulla rilevanza penale dell’elusione», in Corr. Trib. n. 14/2012, pag. 1074; cfr. anche il commento di M. Basilavecchia, in GT – Riv. giur. trib. n. 5/2012, pag. 381.

(2) Comm. trib. prov. di Milano, 4 gennaio 2012, n. 1, in GT – Riv. giur. trib. n. 3/2012, pag. 225, con commento di A. Marcheselli, e in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(3) Secondo la relativa relazione ministeriale illustrativa «il rischio della perdita di materia imponibile diviene talmente limitato da poter essere sacrificato all’obbiettivo della certezza giuridica».

(4) Naturalmente la scelta di assoggettare ad IRPEF le rate di prezzo riscosse per la vendita dei marchi può essere letta come una scelta di natura cautelativa.

(5) Di diverso avviso di è mostrata la Cassazione con riguardo ai componenti negativi di reddito derivanti da operazioni concluse fra società dello stesso gruppo, statuendo che dall’art. 9 del T.U.I.R. scaturirebbe l’obbligo di valutare a valore normale i componenti del reddito d’impresa (Cass., 24 luglio 2002, n. 10802, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA; Id., 11 aprile 2008, n. 9497, in Dialoghi Tributari n. 5/2008, pag. 85, con commenti di A. Vignoli e R. Lupi, e Id., 15 settembre 2008, n. 23635, ivi n. 1/2009, pag. 50, con commenti di M. Varesano, E. Bressan, D. Stevanato e R. Lupi, avente ad oggetto il caso di un lavoratore autonomo). Peraltro, la Suprema Corte ha escluso che un siffatto obbligo possa risultare operante al di fuori della disciplina del reddito d’impresa per le cessioni di partecipazioni (Id., 2 marzo 2012, n. 3290, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA). Comunque, qualora si estenda in via interpretativa alle transazioni fra imprese residenti dello stesso gruppo l’obbligo di tassazione a valore normale, sarebbe a dir poco doveroso estendere anche l’assetto di regole che disciplinano la determinazione dei corrispettivi delle transazioni fra imprese residenti e imprese non residenti dello stesso gruppo.

(6) Cfr. risoluzione 16 marzo 2005, n. 35/E, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(7) Ad esempio, artt. 85, 86, 88, 166, 171 del T.U.I.R.

(8) La Commissione UE nel parere reso nei confronti dell’Italia il 19 marzo 2009 per la violazione degli obblighi della direttiva IVA, ha eccepito che «la rettifica automatica della base imponibile dei beni immobili sulla base del valore normale … senza prove che dimostrino che il prezzo dichiarato non corrisponde al corrispettivo realmente versato inficia la disciplina cardine del sistema comune dell’IVA» e che «il fatto che i soggetti passivi possano fornire prove a sostegno della dichiarazione originale non muta la natura sproporzionata della disposizione contestata che impone ai soggetti passivi l’onere della prova anche in assenza di un’indicazione dell’esistenza di una frode».

(9) La Corte di giustizia CE, sent. 21 febbraio 2006, causa C255/02, Halifax plc, in GT – Riv. giur. trib. n. 5/2006, pag. 385, con commento di A. Santi, e in Banca Dati BIG Suite, IPSOA, ha statuito che le «operazioni implicate in un comportamento abusivo devono essere ridefinite in maniera tale da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato».

(10) Cass., SS.UU., 26 giugno 2009, n. 15029, e Cass., 22 ottobre 2010, n. 21692, entrambe in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(11) Cass. n. 21692 del 2010, cit.

(12) L’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto, ove ne ricorressero i presupposti, limitarsi a considerare inopponibile la vendita dei marchi, tassando a carico degli stilisti le royalties dovute dalle società licenziatarie.

(13) Il secondo comma dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 consente all’Amministrazione finanziaria di rideterminare le imposte, ma sempre e soltanto sulla base delle «disposizioni eluse» e quindi non a sua discrezione.

(14) Corte di giustizia CE, sent. 12 settembre 2006, causa C196/04, in GT – Riv. giur. trib. n. 1/2007, pag. 21, con commento di T. Marino, e in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(15) Risoluzione Consiglio UE sul coordinamento delle norme sulle società estere controllate (SEC) dell’8 giugno 2010.

(16) Secondo Cass., 12 dicembre 2003, n. 19062, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA, «la rettifica … da parte dell’Amministrazione finanziaria, a mezzo di accertamento induttivo, deve essere effettuata mediante ricostruzione, anche in via analitica, di tutte le voci che hanno determinato il reddito imponibile, ovvero prendendo in considerazione tutte le componenti infedelmente dichiarate», anche se «giovi al contribuente determinando un abbattimento della base imponibile e del relativo tributo», ma nello stesso senso Id., 2 ottobre 2009, n. 21148; Id., 8 settembre 2006, n. 19350 e Id., 21 gennaio 2004, n. 942, tutte ivi.

(17) L’art. 37-bis considera elusive le condotte che aggirino non le finalità dell’ordinamento tributario, bensì (gli specifici) divieti ed obblighi previsti dall’ordinamento medesimo.

(18) La Corte europea dei diritti dell’uomo richiede non solo che la sanzione penale trovi fondamento nella legge, ma anche che la legge sia «accessibile alla persona interessata e prevedibile, per quanto riguarda i suoi effetti» (CEDU 26 marzo 1987, Leander/Svezia, ricorso n. 9248/81, Serie A, n. 116, par. 52), e che «sia accessibile alla persona interessata e formulata con sufficiente precisione da porla in grado – se necessario, dietro un opportuno parere – di prevedere secondo le circostanze le conseguenze che una data azione può comportare» (CEDU 25 febbraio 1992, Margareta e Roger Andersson/Svezia, ricorso n. 12963/87, Serie A, n. 226-A, pag. 25, par. 75).

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