I limiti alla deduzione della nullità dei negozi per frode alla legge tributaria

I limiti alla deduzione della nullità dei negozi per frode alla legge tributaria

Corr. Trib. 20/2010, pag. 1603 e segg.

I negozi non possono essere considerati nulli per mancanza di causa per il solo fatto che, in assenza di vantaggi fiscali, genererebbero una perdita economica per una delle parti, non solo perché anche tali vantaggi devono essere presi in considerazione per verificare l’equivalenza delle prestazioni, ma anche perché tale perdita economica può derivare da una retrocessione di vantaggi fiscali che il legislatore, non solo non ha vietato, ma ha legittimato. Inoltre, la deduzione della nullità dei negozi per frode alla legge tributaria sembra ora preclusa dall’art. 10 della legge n. 212/2000, ove statuisce che «le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto», dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, ove legittima l’Amministrazione finanziaria a disconoscere gli effetti delle condotte elusive che utilizzino una delle operazioni ivi indicate e dall’art. 14 della legge n. 537/1993, ove considera rilevanti i componenti di reddito derivanti da illeciti civili. Pertanto, quando sono già previsti dalla normativa fiscale appropriati mezzi di contrasto all’elusione, non può ritenersi legittimo il ricorso ad altri mezzi, tanto più quando si eludano le garanzie che il legislatore ha voluto accordare al contribuente.

La Corte di cassazione, nelle sentenze 21 ottobre 2005, n. 20398 e 14 novembre 2005, n. 22932 (1), ha sostenuto che la tesi secondo cui, prima dell’entrata in vigore della norma antielusiva dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non sarebbe operante un principio generale antielusivo nel sistema fiscale italiano, deve «essere riveduto, alla luce di alcuni principi ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di giustizia comunitaria sul concetto di abuso del diritto» e cioè del principio secondo cui «i singoli non possono avvalersi abusivamente delle norme comunitarie». Ed infatti, sebbene «l’esistenza di una clausola generale antiabuso … nell’intero campo dell’imposizione fiscale non è stata ancora affermata dalla giurisprudenza comunitaria … non pare contestabile l’emergenza di un principio tendenziale che deve spingere l’interprete alla ricerca di appropriati mezzi all’interno dell’ordinamento nazionale per contrastare tale diffuso fenomeno». Ebbene, uno di tali mezzi è stato inizialmente individuato nella «riqualificazione o ricostruzione dell’atto come negozio meramente obbligatorio» e, quindi, nella nullità dei negozi conclusi per eludere la legge tributaria.

Peraltro, poiché con l’ordinanza 24 maggio 2006, n. 12302 (2) la questione dell’ammissibilità di questo mezzo di contrasto dell’elusione era stata rimessa alle SS.UU., la Corte di cassazione con le sentenze 29 settembre 2006, n. 21221 e 4 aprile 2008, n. 8772 (3) ne ha enucleato uno ulteriore e cioè quello di divieto di abuso del diritto fiscale, facendolo discendere direttamente dal divieto di abuso del diritto comunitario (4). Sennonché, le SS.UU. con le sentenze 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057 (5), dopo aver confermato l’esistenza di un generale principio antielusivo, hanno precisato che «la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano». In particolare, sarebbe «insito nell’ordinamento come diretta derivazione» dei «principi di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.)» che «costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere … il principio secondo cui il contribuente non può trarre vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale».

Stando così le cose, occorre a questo punto verificare se, con l’enucleazione del divieto di abuso del diritto fiscale e, al tempo stesso, l’entrata in vigore della norma antielusiva dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, sia tuttora ammissibile la deduzione della nullità dei negozi per frode alla legge tributaria. Tale verifica si rende necessaria per il fatto che i difformi orientamenti espressi dalla Corte di cassazione hanno legittimato comportamenti non sempre lineari. L’Amministrazione finanziaria ha infatti contestato in relazione ai medesimi casi e periodi d’imposta, alternativamente, ora la nullità per mancanza di causa o per frode alla legge, ora l’elusione ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e ora l’abuso del diritto fiscale, legittimando in tal modo un’irragionevole discriminazione di trattamento dei contribuenti.

Tesi della nullità per mancanza di causa

Nelle sentenze n. 20398 e n. 22932 del 2005, la Corte di cassazione ha sostenuto che la ragione per cui i negozi elusivi «non possono svolgere effetti nei confronti del Fisco deve essere ravvisata in una specie di invalidità ben più radicale» e cioè quella della nullità per mancanza di causa per la considerazione che non «possono prospettarsi – in difetto di espresse previsioni normative – ipotesi di frode alla legge, né di non meritevolezza del contratto ex art. 1322 c.c., trattandosi di contratti tipici».

Svolta tale premessa, nella prima delle due sentenze richiamate, la Suprema Corte ha ritenuto nulli per mancanza di causa i contratti di dividend stripping, e cioè i contratti con cui una s.p.a. residente acquistava da una SGR residente azioni cum cedola di altra s.p.a. residente, incassava i dividendi e gliele rivendeva ex cedola. Poiché «l’accertamento dell’esistenza dell’elemento causale – definito come scopo economico sociale – deve essere effettuato sul negozio o sui negozi collegati, nel loro complesso, e non con riferimento ai singoli negozi o alle singole prestazioni … occorre valutare le attribuzioni patrimoniali conseguite dai due negozi nella loro reciproca connessione». Sennonché i predetti contratti, nel loro complesso, sarebbero privi del predetto elemento causale in quanto, prevedendo «un acquisto e un trasferimento di azioni pressoché contestuali e previamente programmati, nessuna delle parti conseguiva alcun vantaggio economico … all’infuori del risparmio fiscale». D’altro canto, la «ricerca dell’elemento causale non può … riguardare le conseguenze fiscali, che si ricollegano ope legis al negozio posto in essere, e che possono, al più, assurgere al livello di motivi».

Analogamente, nella seconda delle due sentenze prima richiamate, la Corte di cassazione ha ritenuto nulli i contratti di dividend washing e cioè i contratti con cui una società non residente trasferiva dietro corrispettivo l’usufrutto di azioni di una s.p.a. residente ad un’altra s.p.a. residente. Secondo la Suprema Corte «nella specie … l’esistenza della causa del contratto deve essere ricercata, non solo nel fatto che una parte ottenga anticipatamente, e a condizioni non di mercato, una somma pari a futuri dividendi, ma nello scambio di tale attribuzione con un adeguato vantaggio ottenibile dall’altra parte; in altre parole, nell’equivalenza delle prestazioni o nella ragione giustificativa di ciascuna prestazione».

Sennonché «con il negozio posto in essere la … s.p.a. non conseguiva alcun vantaggio economico, in quanto corrispondeva alla società straniera titolare un valore economico pari, se non inferiore [rectius superiore], a quello che avrebbe conseguito». In sostanza, l’usufruttuario per il trasferimento del diritto di usufrutto delle azioni aveva riconosciuto al nudo proprietario un corrispettivo di importo superiore a quello dei dividendi futuri per il fatto che gli aveva retrocesso una parte del credito d’imposta sui dividendi.

Criticità della tesi della nullità per mancanza di causa

Innanzitutto v’è fondato motivo di ritenere che un negozio non possa essere considerato nullo per mancanza di causa ai sensi dell’art. 1418 c.c. per il solo fatto che, prescindendo dagli effetti fiscali, generi per una delle parti una perdita economica in quanto comporti il conseguimento di somme o beni di valore inferiore rispetto al corrispettivo contrattuale.

In effetti, l’esistenza di un principio di equivalenza delle prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive, esclusa dalla Relazione al Codice civile del Guardasigilli (6), è stata negata da autorevole dottrina (7) e dalla giurisprudenza (8). Del resto, i negozi possono essere conclusi in perdita economica non solo per porre in essere pratiche concorrenziali, ma anche per conseguire altri tipi di vantaggi economici e non economici.

Comunque, quand’anche esistesse un siffatto principio di equivalenza delle prestazioni, anche i vantaggi fiscali rientrerebbero fra i vantaggi economici da prendere in considerazione per verificare tale equivalenza. Non v’è dubbio infatti che le parti, nella determinazione dei corrispettivi dei negozi traslativi, ne tengono conto in quanto incidono sul valore economico dei beni trasferiti (9). Oltremodo significativo è in questo senso che le istruzioni al regolamento dei mercati regolamentati gestiti dalla Borsa italiana s.p.a., statuendo che «qualora i contratti di compravendita non siano liquidati nel termine previsto per mancanza di titoli e intercorra un’operazione di distribuzione di dividendi, il venditore è tenuto a consegnare il titolo ex dividendo e a riconoscere all’acquirente un importo monetario pari al dividendo non percepito da quest’ultimo, maggiorato di una percentuale che tenga conto degli effetti economici correlati al pagamento dei dividendi, ivi inclusi quelli fiscali» danno per acquisito che i prezzi di mercato sono determinati tenendo conto anche degli effetti fiscali.

Ma v’è di più. Il legislatore può concedere crediti o deduzioni ad un soggetto per indurlo a concludere con un altro soggetto negozi che altrimenti non avrebbe concluso o avrebbe concluso a condizioni diverse perché lo espongano ad una perdita economica.

È questo il caso del credito d’imposta per imposte pagate all’estero figurativo concesso da alcune convenzioni fiscali concluse dall’Italia sui dividendi, interessi e canoni. La concessione di tale credito d’imposta potrebbe rendere profittevole l’acquisto di attività finanziarie ed immateriali che altrimenti non lo sarebbe. Ad esempio, l’acquisto di obbligazioni potrebbe non risultare conveniente perché il maggior tasso di interesse da esse accordato non compensi l’onere derivante dalla copertura del rischio di insolvenza dell’emittente. Ebbene, la concessione del credito d’imposta figurativo potrebbe rendere conveniente l’operazione perché consentirebbe di realizzare un guadagno.

Ed ancora, la scelta legislativa di accordare crediti o deduzioni al soggetto cui sia giuridicamente imputabile un reddito può esporre tale soggetto ad una perdita economica, ogniqualvolta egli si trovi a dover retrocedere il relativo controvalore al soggetto cui questo medesimo reddito sia economicamente imputabile. È questo quello che accadeva con le operazioni di acquisto di azioni cum cedola e di loro rivendita ex cedola, prima dell’introduzione delle norme antielusive di cui ai commi 3-bis e 3-ter dell’art. 109 del T.U.I.R. Qualora il venditore avesse integralmente assoggettato ad imposizione le plusvalenze realizzate mediante la vendita delle azioni cum cedola, i dividendi risultavano gravati due volte dall’imposta, una prima volta, sotto forma di utili d’impresa a carico della società che li aveva prodotti e, una seconda volta, sotto forma di plusvalenze, a carico del venditore. Di conseguenza, il riconoscimento del credito di imposta o dell’esclusione dall’imponibile a favore del compratore serviva a controbilanciare l’assoggettamento ad imposta dei medesimi dividendi, sotto forma di plusvalenze, a carico del venditore.

SOLUZIONI OPERATIVE
Divieto di abuso di diritto
Il riconoscimento all’Amministrazione finanziaria della facoltà di invocare il principio di divieto di abuso del diritto fiscale anche in relazione a casi a cui sarebbe applicabile il principio di nullità dei negozi in frode alla legge si ritiene che si ponga in contrasto con principi costituzionali di ragionevolezza e di imparzialità della Pubblica amministrazione. Ed infatti, qualora si riconoscesse all’Amministrazione finanziaria la facoltà di scegliere fra l’uno e l’altro principio in relazione allo stesso caso, le si conferirebbe una discrezionalità che sarebbe incompatibile con le enunciate disposizioni costituzionali.

Il fatto che poi il credito d’imposta o l’esclusione dall’imponibile spettava al compratore non significava che comunque fosse quest’ultimo a beneficiare del relativo risparmio d’imposta. Il venditore, in condizioni di libera concorrenza, era disposto a cedere le azioni soltanto se gli veniva retrocesso tale risparmio d’imposta tramite una corrispondente maggiorazione del relativo prezzo di cessione. Di conseguenza, per effetto di tale maggiorazione di prezzo, il venditore realizzava un guadagno economico che controbilanciava l’onere derivante dal pagamento dell’imposta sulle plusvalenze, mentre, specularmente, il compratore realizzava una perdita economica che era controbilanciata dalla fruizione del credito d’imposta o dell’esclusione dall’imponibile (10).

Comunque, al di là delle precedenti considerazioni, il legislatore considera pienamente validi anche i negozi che prevedano il pagamento di somme in contropartita della sola attribuzione di un vantaggio fiscale. Lo dà per scontato, ad esempio, il comma 4 dell’art. 118 del T.U.I.R., laddove non considera imponibili «le somme percepite … fra le società» consolidate «in contropartita dei vantaggi fiscali … attribuiti».

In definitiva, un negozio non può essere considerato nullo per mancanza di causa per il solo fatto che, non considerando i vantaggi fiscali, genererebbe una perdita economica per una delle parti in quanto tale perdita economica può derivare da una retrocessione di vantaggi fiscali che il legislatore non solo non ha vietato, ma ha implicitamente od esplicitamente legittimato.

Tesi della nullità per frode alla legge

La Corte di cassazione, nella sentenza 26 novembre 2006, n. 20816, ha sostenuto che l’Amministrazione finanziaria, «quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e, poi, in sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente o la loro nullità per frode alla legge (art. 1344 c.c.), ivi compresa la legge tributaria per il fatto che anche la legge tributaria ha natura imperativa». Pertanto, la Suprema Corte ha statuito che i contratti di dividend washing attuate mediante il trasferimento dell’usufrutto di azioni, sono nulli non solo perché affetti da simulazione relativa, ma anche perché posti in essere in frode alla legge. Secondo la Suprema Corte le operazioni così individuate «sono state drasticamente troncate dall’introduzione del comma 6-bis [rectius 7-bis] nell’art. 14 del T.U.I.R.» posto che «la giurisprudenza ha correttamente ritenuto che la norma non abbia efficacia retroattiva (Cass. 7 marzo 2002, n. 3345)» (11). «Questo però non significa che in epoca anteriore l’Amministrazione dovesse passivamente subire le possibili operazioni fraudolente poste in essere dai privati» in quanto «doveva fare ricorso ai comuni strumenti di accertamento, con tutte le difficoltà derivanti da simile procedura».

Peraltro, la tesi seguita dalla Sez. V della Corte di cassazione secondo cui potrebbe essere contestata la nullità dei contratti per frode alla legge tributaria non ha trovato consenso presso le altre sezioni. In particolare, con sentenza 28 febbraio 2007, n. 4785 (10) la Sez. II ha concluso che «le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto od in parte la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni». Inoltre, con sentenza 18 marzo 2008, n. 7282 (10) la Sez. III ha statuito che «la frode fiscale diretta ad eludere le norme tributarie trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio». Prima dell’entrata in vigore dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, l’Amministrazione finanziaria «non aveva il potere di riqualificare i contratti posti in essere dalle parti … neppure in virtù degli artt. 1344 e 1418 c.c. che sanciscono la nullità dei contratti che costituiscono il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa», posto che «le norme tributarie, essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali, che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico».

Inserendosi in questa diatriba, con sentenza 26 giugno 2009, n. 15029 (12), le SS.UU. della Corte di cassazione hanno sostenuto che la tesi secondo cui «un contratto stipulato per eludere disposizioni fiscali e/o comunitarie» non «possa ricadere nello schema del contratto in frode alla legge, ai sensi dell’art. 1344 c.c., in quanto le norme comunitarie e fiscali non sarebbero norme imperative» sarebbe destituita di fondamento. Secondo «le più recenti pronunce di questa Corte», l’Amministrazione finanziaria sarebbe «legittimata a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla legge, ivi compresa la legge tributaria (art. 1344 c.c.)». Ed infatti, «a conclusione di un percorso evolutivo che trae spunto proprio dalla giurisprudenza comunitaria» le SS.UU. hanno affermato che, «in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici».

Criticità della tesi della nullità per frode alla legge

V’è fondato motivo di ritenere che i negozi conclusi per eludere la legge tributaria non possano essere considerati nulli per frode alla legge ai sensi dell’art. 1344 c.c. Secondo l’insegnamento della sentenza della Corte di cassazione 14 novembre 2006, n. 24274, «per aversi frode alla legge» occorre non solo che sia aggirata una norma imperativa, ma anche che «la norma imperativa abbia natura non formale ma materiale, nel senso che sia da essa enucleabile un precetto, non esplicitato, che vieti di raggiungere risultati sostanzialmente equivalenti a quelli espressamente vietati» e che «vi sia identità di risultato fra contratto espressamente vietato e contratto mezzo di elusione».

Ebbene, la stessa Corte di cassazione, come si è visto, è tutt’altro che concorde sul fatto che alle norme tributarie possa riconoscersi natura imperativa e, comunque, quand’anche possa ad esse riconoscersi tale natura, da tali norme è raramente enucleabile un precetto che vieti il raggiungimento di determinati risultati.

Inoltre, le SS.UU., nella sentenza n. 15029 del 2009, hanno motivato l’applicabilità dello schema del contratto in frode alla legge anche ai contratti conclusi per eludere le norme tributarie sulla base del diretto richiamo del divieto di abuso del diritto fiscale promanante dall’art. 53 Cost. Pertanto, questa sentenza sembra lasciar intendere che la nullità dei predetti contratti troverebbe fondamento nella predetta disposizione costituzionale, piuttosto che nell’art. 1344 c.c.

Comunque, ove si voglia affermare l’esistenza di un generale divieto di abuso del diritto fiscale promanante dall’art. 53 Cost. che consenta di rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria i negozi di natura elusiva, dovrebbe coerentemente escludersi che il principio di nullità dei negozi conclusi in frode alla legge sancito dall’art. 1344 c.c. possa estendersi alla legge tributaria, indipendentemente dal fatto che le norme da essa previste possano avere natura imperativa.

Già sul piano logico-sostanziale non si vede perché vi sarebbe bisogno di invocare un generale divieto di abuso del diritto fiscale promanante dalla Costituzione per rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria i negozi posti in essere in frode alla legge tributaria, allorché nell’ordinamento sarebbe già prevista una norma che consenta di ottenere questo risultato. Tale divieto, essendo stato concepito in funzione di riempimento delle lacune dell’ordinamento, non dovrebbe poter essere invocato quando non sia rinvenibile alcuna lacuna perché esistano già disposizioni che consentano di contrastare efficacemente l’abuso del diritto fiscale.

Inoltre, l’applicazione di un principio generale di divieto di abuso del diritto fiscale non potrebbe che risultare preclusa dall’applicazione dello speciale principio di nullità dei negozi conclusi in frode alla legge. Ciò non solo perché, per il principio di specialità, le disposizioni di carattere speciale derogano sempre le disposizioni di carattere generale e, quindi, a maggior ragione anche i principi generali, ma anche perché, per l’espresso ed inequivoco disposto dell’art. 12 disp. prel. c.c., il ricorso ai principi generali dell’ordinamento per risolvere un caso controverso è ammesso soltanto qualora manchi una disposizione di legge precisa che disciplini tale caso.

Ma v’è di più. Il riconoscimento all’Amministrazione finanziaria della facoltà di invocare il principio di divieto di abuso del diritto fiscale anche in relazione a casi a cui sarebbe applicabile il principio di nullità dei negozi in frode alla legge si potrebbe porre in contrasto con altri principi costituzionali e cioè quello di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e quello di imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost. Ed infatti, qualora si riconoscesse all’Amministrazione finanziaria la facoltà di scegliere fra l’uno e l’altro principio in relazione allo stesso caso, le si conferirebbe una discrezionalità che sarebbe incompatibile con le enunciate disposizioni costituzionali.

Comunque, indipendentemente dall’esistenza di un generale divieto di abuso del diritto fiscale, la deduzione della nullità dei negozi per frode alla legge deve ritenersi ora preclusa da specifiche disposizioni di diritto positivo.

La disposizione dell’ultimo periodo dell’art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente), stabilendo testualmente che «le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto», non sembra più consentire di contestare la nullità dei contratti conclusi in elusione della legge tributaria con effetto dalla sua entrata in vigore. Se la violazione di norme tributarie non può essere causa di nullità del contratto, a maggior ragione, non può esserlo neppure la loro elusione.

Inoltre, lo specifico regime d’inopponibilità dei negozi conclusi in frode alla legge tributaria introdotto dalla norma antielusiva dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 in relazione alla materia di imposte sui redditi e alle operazioni ivi elencate, nonché dal comma 7 dell’art. 69 della legge 21 novembre 2000, n. 342, in materia di imposta di successioni e donazioni, preclude l’applicazione per le materie ed operazioni così individuate del principio di nullità dei negozi per frode alla legge sancito dall’art. 1344 c.c. La prima norma, per il principio di specialità, non può che derogare la seconda in quanto risulta speciale rispetto ad essa proprio per il fatto che ha ad oggetto le materie ed operazioni così individuate.

Comunque, l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, laddove non precludesse l’applicazione dell’art. 1344 c.c. alle materie ed operazioni da esso individuate, potrebbe essere considerato costituzionalmente illegittimo per violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e di quello di imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost. per il fatto che legittimerebbe l’applicazione di un deteriore trattamento a danno dei contribuenti in dipendenza di una valutazione puramente discrezionale dell’Amministrazione finanziaria. La prima di tali due disposizioni riconosce infatti al contribuente fondamentali garanzie procedimentali che la seconda invece non riconosce, e cioè l’obbligo di richiedere al contribuente «chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla ricezione della richiesta» e di indicare nella richiesta i motivi per cui si reputa applicabile la norma antielusiva, l’obbligo di motivare «specificamente … a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente», l’obbligo di «applicare le imposte in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’Amministrazione finanziaria» e, infine, l’obbligo di riscuotere le imposte accertate soltanto dopo la sentenza della Commissione tributaria provinciale.

SOLUZIONI OPERATIVE
Violazione di norme tributarie nello Statuto del contribuente
L’art. 10 dello Statuto del contribuente, stabilendo che «le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto», non sembra più consentire di contestare la nullità dei contratti conclusi in elusione della legge tributaria con effetto dalla sua entrata in vigore. Se la violazione di norme tributarie non può essere causa di nullità del contratto, a maggior ragione non può esserlo neppure la loro elusione.

È significativo rilevare in questo senso che la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 97 Cost. di una disposizione che precludeva la possibilità per i contribuenti di avvalersi di una definizione agevolata se raggiunti da un avviso di accertamento emanato dopo l’entrata in vigore della relativa legge istitutiva poiché, per effetto di tale disposizione, «gli uffici finanziari vengono resi arbitri di stabilire quali contribuenti possono beneficiare della definizione agevolata e quali ne vanno esclusi» (13).

Peraltro, quand’anche i negozi elusivi possano considerarsi nulli per frode alla legge, v’è motivo di ritenere che la loro nullità non possa comportare ex se l’irrilevanza fiscale dei componenti di reddito generati dai negozi medesimi che non costituiscano reato. Se da un lato, infatti, il comma 4 dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 considera imponibili secondo le regole ordinarie i proventi derivanti da illeciti civili, ove statuisce che «nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del T.U.I.R. … devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale» e che «i relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria», dall’altro lato, il comma 4-bis di questo medesimo articolo, considera indeducibili soltanto i costi riconducibili a reati (14) e non anche quelli riconducibili ad illeciti civili, ove statuisce che «nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del T.U.I.R. … non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti» (15). In sostanza, tali disposizioni legittimano l’assoggettamento ad imposizione dei redditi derivanti da atti qualificabili come illecito proprio perché considerano rilevanti gli effetti economici di tali atti, indipendentemente dal fatto che trovino fonte in un valido titolo giuridico (16). Pertanto, la nullità dei negozi elusivi per frode alla legge non può comportare ex se l’irrilevanza dei componenti di reddito da essi generati perché non implica come tale la rimozione dei relativi effetti economici.

SOLUZIONI OPERATIVE
Nullità dei negozi elusivi

Quand’anche i negozi elusivi possano considerarsi nulli per frode alla legge, v’è motivo di ritenere che la loro nullità non possa comportare l’irrilevanza fiscale dei componenti di reddito generati dai negozi medesimi.

In conclusione, quando sono già previsti nella normativa fiscale appropriati mezzi di contrasto all’elusione, non può ritenersi legittimo il ricorso ad altri mezzi, tanto più quando in tal modo si eludano palesemente le garanzie che il legislatore ha voluto accordare al contribuente.

Note:

(1) Cass., 21 ottobre 2005, n. 20398, in GT – Riv. giur. trib. n. 1/2006, pag. 19, con commento di L. Mariotti, e in Banca Dati BIG, IPSOA; Id., 14 novembre 2005, n. 22932, in GT – Riv. giur. trib. n. 3/2006, pag. 212, con commento di M. Beghin, e in Banca Dati BIG, IPSOA.

(2) In Banca Dati BIG, IPSOA.

(3) Cass., 29 settembre 2006, n. 21221, in Banca Dati BIG, IPSOA e Id., 4 aprile 2008, n. 8772, in GT – Riv. giur. trib. n. 8/2008, pag. 695, e in Banca Dati BIG, IPSOA.

(4) Cfr. G. Escalar, «Esclusa la diretta efficacia dell’abuso del diritto per le imposte dirette», in Corr. Trib. n. 9/2009, pag. 699.

(5) Tutte in GT – Riv. giur. trib. n. 3/2009, pag. 216, con commento di A. Lovisolo, e in Banca Dati BIG, IPSOA.

(6) Ove si legge che «una norma generale che avesse autorizzato il riesame del contenuto del contratto per accertare l’equità o la proporzione delle prestazioni in esso dedotte, sarebbe stata, non soltanto esorbitante, ma anche pericolosa per la sicurezza delle contrattazioni; tanto più che avrebbe resa necessaria una valutazione obiettiva delle situazioni contrapposte, là dove spesso, nella determinazione dei vantaggi di ciascuna parte, operano imponderabili apprezzamenti soggettivi, non suscettibili di un controllo adeguato».

(7) Si vedano in questo senso: F. Galgano, «Sull’equitas delle prestazioni contrattuali», in Contratto e Impresa, 1993, pag. 420, R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni contrattuali, Padova, 2003, pag. 227, A. Riccio, «Il controllo giudiziale della libertà contrattuale: l’equità correttiva», in Contratto e Impresa, 1999, pag. 939; S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 2004, pag. 223; M. Timoteo, «Nuove regole in materia di squilibrio contrattuale: l’art. 3.10 dei Principi UNIDROIT», in Contratto e Impresa/europa, n. 1/1997, pag. 141; F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano, 1970, pag. 320 ss.; T.O. Scozzafava, «Il problema dell’adeguatezza negli scambi e la rescissione del contratto per lesione», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, 1, pag. 309.

(8) In questo senso Cass., 25 marzo 1996, n. 2635; Id., 28 agosto 1993, n. 9144; Id., 14 dicembre 1988, n. 6816; Id., 26 novembre 1971, n. 3444; Id., 6 ottobre 1955, n. 2861; nel senso che sia necessaria una (solo) tendenziale o approssimativa equivalenza delle prestazioni Id., 15 giugno 1999, n. 5917; Id., 20 novembre 1992, n. 12401; Id., 27 luglio 1987, n. 6492.

(9) Cass., SS.UU., 8 maggio 1985, n. 6445, in Banca Dati BIG, IPSOA.

(10) Un’esemplificazione può essere utile. Si consideri l’ipotesi che una società A venda ad una società B un’azione della società C acquistata a 1000 euro con una cedola di 67 euro, le società siano tutte residenti e soggette ad IRES con l’aliquota del 33% e, infine, il prezzo di vendita dell’azione sia fissato a 1098,35 euro (1000 euro per l’azione + 67 euro per i dividendi + 31,35 euro per il risparmio d’imposta connesso ai dividendi) in quanto la società B retroceda alla società A il controvalore lordo del risparmio d’imposta conseguibile mediante l’acquisto dell’azione cum cedola e la sua cessione ex cedola. In una siffatta ipotesi, gli utili sono soggetti due volte ad imposta in quanto, dopo essere stati assoggettati ad IRES a carico della società distributrice C, sono nuovamente assoggettati a tale imposta a carico della società A con un carico fiscale complessivo di quasi 66 euro. Ed infatti, quest’ultima, realizzando tramite la vendita dell’azione una plusvalenza di 98,35 euro (1098,35 euro prezzo di vendita – 1000 euro prezzo di acquisto = 98,35 euro plusvalenza), deve corrispondere 32,45 euro d’imposta. Peraltro, la società A risulta gravata dalla doppia imposizione soltanto limitatamente al 5% dei dividendi in quanto l’onere derivante dal pagamento dell’imposta così determinata di 32,45 euro è quasi integralmente compensato dal provento di 31,35 euro derivante dall’incasso del maggior prezzo di vendita delle azioni. Per contro, la società B tramite l’acquisto delle azioni cum cedola e la loro successiva vendita ex cedola realizza una perdita economica di 31,35 euro in quanto vende a 1000 euro azioni acquistate a 1098,35 euro, incassando dividendi per 67 euro (prezzo vendita 1000 euro – costo di acquisto 1098,35 + dividendi 67 = perdita economica 31,35 euro). Tuttavia tale perdita economica trova integrale contropartita nel conseguimento di un risparmio d’imposta di 31,35 euro derivante dalla deduzione della minusvalenza di 98,35 euro in contropartita dell’incasso di dividendi di 67 euro esclusi per il 95% del relativo ammontare.

(11) In Banca Dati BIG, IPSOA.

(12) In GT – Riv. giur. trib. n. 11/2009, pag. 957, con nota di C. Glendi, e in Banca Dati BIG, IPSOA.

(13) Corte cost., 7 luglio 1986, n. 175, in Banca Dati BIG, IPSOA

(14) Peraltro, con ordinanza 30 novembre 2009, la Commissione tributaria provinciale di Terni ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di tale disposizione per violazione, oltre che dell’art. 27 Cost., anche degli artt. 3 e 53 Cost.

(15) La stessa Agenzia delle entrate, nella circolare 26 settembre 2005, n. 42/E, in Banca Dati BIG, IPSOA, ha precisato che, «per quanto riguarda, inoltre, le ipotesi di illeciti civili o amministrativi, la deducibilità dei relativi costi continua ad essere assoggettata alle ordinarie regole del T.U.I.R.».

(16) La relazione illustrativa del comma 4 della legge n. 537/1993, ove recita che «il possesso di redditi rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6 del T.U.I.R. deve intendersi come disponibilità materiale e di fatto a prescindere dalla qualificazione lecita o illecita dell’attività» e che «la disponibilità del provento illecito, destinato a durare per un periodo piuttosto lungo fino alla confisca … o alla restituzione o risarcimento (rimessi all’iniziativa della parte lesa del fatto illecito) assicura comunque un vantaggio al reo, che appare equo assoggettare a tassazione», dà per scontato che è irrilevante l’esistenza di eventuali obbligazioni e, quindi, anche di eventuali diritti di natura restitutoria o risarcitoria.

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