Le modalità di prova delle esimenti del divieto di deduzione dei costi «black list»

Le modalità di prova delle esimenti del divieto di deduzione dei costi «black list»

Corr. Trib. 21/2013, pag. 1656 e segg.

Per fruire delle due esimenti del divieto di deducibilità dei costi delle operazioni con imprese a regime fiscale privilegiato, è sufficiente che le imprese residenti provino di esercitare un’attività commerciale effettiva e non apparente con una struttura organizzativa dislocata all’estero ovvero, in alternativa, che le operazioni intercorrenti con le imprese così individuate, pur non essendo concluse alle condizioni di miglior favore, siano economicamente giustificabili. Solo in tal modo si può garantire che uno strumento di contrasto del trasferimento di utili all’estero non si trasformi in uno strumento di imposizione di utili mai realizzati.

Il comma 10 dell’art. 110 del T.U.I.R. pone a carico delle imprese residenti un generale divieto di deducibilità dei componenti negativi sostenuti per operazioni intercorse con imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, la cui finalità, secondo l’Agenzia delle entrate, «è contrastare la distrazione di utile dall’Italia verso Paesi e territori a fiscalità privilegiata» in funzione «antielusiva» (1). L’applicabilità del predetto divieto è pertanto esclusa dal successivo comma 11, non risultando configurabile una distrazione di utile nel caso in cui ricorrano due esimenti fra di loro alternative e cioè nel caso in cui le imprese residenti forniscano la prova o che le imprese domiciliate fiscalmente all’estero «svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva» (prima esimente) o che «le operazioni rispondono ad un interesse economico effettivo e hanno avuto regolare esecuzione» (seconda esimente).

Sennonché l’adozione da parte della prassi amministrativa di orientamenti restrittivi e talora contrastanti in ordine alle modalità di prova delle due esimenti ha reso oltremodo ardua per le imprese residenti la prestazione di tale prova, soprattutto nel caso in cui non facciano parte dello stesso gruppo delle imprese a regime fiscale privilegiato, legittimando il prelievo dell’imposta anche quando le operazioni siano state realmente poste in essere e quindi manchi una manifestazione di capacità contributiva assoggettabile a tale prelievo. Pertanto, si ritiene opportuno analizzare tali orientamenti per poi proporre una ricostruzione delle modalità di prova delle due esimenti che risponda, non solo al dettato della legge, ma anche alla primaria finalità del divieto di deducibilità dei costi delle operazioni con imprese a fiscalità privilegiata che, come si è visto, è quella di contrastare la distrazione di utili a favore delle imprese medesime.

Prima esimente relativa all’esercizio di un’attività commerciale effettiva

Per quanto attiene alla prima esimente, va subito rilevato che il comma 11 dell’art. 110 del T.U.I.R. è formulato nel senso di considerare sufficiente per la sua fruizione la prova che le imprese a fiscalità privilegiata esercitino prevalentemente un’attività commerciale effettiva e non richiede, quindi, di provare, né che tale attività sia ivi svolta, né che lo sia con modalità prestabilite.

Sennonché, fin dal 2002, l’Agenzia delle entrate ha sostenuto che, per fruire di tale esimente, le imprese residenti devono fornire la prova che le imprese a fiscalità privilegiata, non solo svolgono un’attività commerciale effettiva tramite una propria struttura organizzativa, ma anche che tale struttura è idonea all’esercizio di questa attività, laddove hanno fatto presente che «in sede di valutazione degli elementi di prova prodotti … l’Amministrazione finanziaria procederà ad accertare: l’effettività di tale attività in relazione all’idoneità della struttura organizzativa in loco predisposta per lo svolgimento dell’attività stessa» (2). Pertanto, è stato escluso che una società che acquistava biancheria da una società delle Mauritius potesse fruire della prima esimente perché non aveva «dimostrato … che il fornitore svolga come sua attività principale in Mauritius un’attività commerciale ai sensi dell’art. 2195 c.c., avvalendosi di una struttura organizzativa idonea allo svolgimento della citata attività oppure alla sua autonoma preparazione e conclusione» (3). Nello stesso senso si è espresso il Comitato antielusivo, negando ad una società che acquistava servizi pubblicitari da una società di Hong Kong la fruizione della prima esimente per l’inidoneità della struttura organizzativa di tale società ad esercitare ivi un’attività commerciale, essendo «rilevabile una sproporzione tra le dimensioni finanziarie e geografiche dell’impegno commerciale e pubblicitario ascritto alla società di Hong Kong e la disponibilità da parte di quest’ultima di sole 3 unità lavorative» (4).

Sennonché, nel corso del 2009, l’Agenzia delle entrate ha reso ancor più rigorose le modalità di prova dei presupposti della prima esimente in quanto ha sostenuto che tali presupposti dovrebbero essere provati con le medesime modalità con cui devono essere provati i presupposti della diversa esimente del regime di tassazione per trasparenza dei redditi di società controllate estere, facendo diretto rinvio a questo fine «alle indicazioni fornite con la circolare 23 maggio 2003, n. 29/E (5), par. B) “Documentazione di prova” e in generale ai numerosi documenti di prassi amministrativa emanati con riguardo alla disapplicazione dell’art. 167 del T.U.I.R. che detta la disciplina delle imprese estere controllate (cd. CFC rule)» (6). Pertanto, le imprese residenti dovrebbero fornire la prova, non solo che sia effettiva la «localizzazione della struttura organizzativa nel Paese a fiscalità privilegiata», ma anche che sussista un «collegamento fisico di una struttura commerciale o industriale con il territorio CFC» e che l’«attività svolta nel Paese a fiscalità privilegiata … sia quella principale», producendo i documenti ivi individuati, pur quando non facciano parte dello stesso gruppo.

In tal modo, l’Agenzia delle entrate ha subordinato l’applicazione dell’esimente alla prova di un presupposto, e cioè quello del radicamento fisico dell’attività commerciale principale nello Stato a fiscalità privilegiata, che è previsto dalla lett. a) dell’art. 167, comma 5, del T.U.I.R., ma non anche dal comma 10 dell’art. 110 del T.U.I.R. Ed infatti, se la prima di tali due disposizioni, nel testo vigente fino al 30 giugno 2009, richiedeva la prova che la «la società o altro ente non residente svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nello Stato o nel territorio nel quale ha sede» e, nel testo ora vigente, richiede la prova che «la società o altro ente non residente svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio di insediamento», la seconda si limita soltanto a richiedere la prova che «le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva», senza richiedere quindi che tale attività sia svolta nello Stato o territorio a regime fiscale privilegiato.

Ma non basta. Nonostante non fosse intervenuta alcuna modifica normativa e smentendo, per di più, una sua precedente presa di posizione (7), l’Agenzia delle entrate ha sostenuto che, per la fruizione della prima esimente, non basti più la prova che l’impresa non residente svolga la sua attività commerciale principale nel territorio a fiscalità privilegiata tramite una struttura organizzativa idonea collegata fisicamente con tale territorio, ma che occorra anche la prova che tale impresa sia «radicata nel territorio estero di localizzazione, in modo da partecipare in maniera stabile e continuativa alla vita economica di quest’ultimo». In particolare essa, occupandosi del caso di una società svizzera che gestiva i rapporti con le agenzie pubblicitarie per un gruppo del settore lattierocaseario, pur avendo riconosciuto che la predetta società «dispone di una materiale struttura, avendo, tra l’altro, la disponibilità di un ufficio dove ha stabilito la propria sede legale, nonché di proprio personale dipendente», ha escluso che «l’esistenza in loco di detta struttura» sia «sufficientemente indicativa di un’attività effettivamente radicata nel territorio, da parte della società che fornisce servizi “immateriali” destinati a clientela estera». Ed infatti, a suo dire, «l’impresa estera in tanto potrà considerarsi effettivamente localizzata in territorio a fiscalità privilegiata in quanto abbia stabilito con quel territorio rapporti di tipo economico, politico, geografico o strategico», nel senso che, cioè, «detta impresa risulti effettivamente radicata nel territorio estero di localizzazione, in modo da partecipare in maniera stabile e continuativa alla vita economica di quest’ultimo» (8).

LA PRASSI AMMINISTRATIVA
Idoneità della struttura organizzativa
Non può essere condivisa la scelta dell’Agenzia delle entrate di porre a carico delle imprese residenti l’onere di provare che le imprese a fiscalità privilegiata dispongono di una struttura organizzativa idonea all’esercizio della loro specifica attività commerciale. Tale scelta, non solo si pone in contrasto con l’art. 110 del T.U.I.R., che si limita a richiedere la prova dell’effettività dell’attività commerciale, ma è priva di giustificazione, risultando sufficiente per la prova di tale effettività la dimostrazione del possesso di una struttura organizzativa. Ed infatti l’insussistenza di un perfetto rapporto di proporzionalità fra la struttura organizzativa e l’attività esercitata non può di per sé indicare una mancanza di effettività, potendo dipendere da una pluralità di fattori, quali ad esempio uno sfruttamento intensivo dei fattori produttivi, una migliore organizzazione aziendale ovvero minori oneri amministrativi, regolamentari o normativi, ecc.

Sennonché l’Agenzia delle entrate, con un opportuno revirement, ha escluso che «il cd. radicamento previsto ai fini CFC … costituisce un elemento dirimente ai fini della disapplicazione delle disposizioni in materia di deducibilità di costi black list, che, in linea di principio, va riconosciuta a seguito della dimostrazione dello svolgimento da parte del fornitore estero di un’effettiva attività commerciale mediante un’idonea struttura in loco», posto che «l’espresso riferimento “al mercato dello stato o territorio di insediamento”, ora presente nell’ambito della prima esimente prevista per la disapplicazione della CFC rule, assente invece nell’analoga esimente di cui all’art. 110, comma 11, del T.U.I.R., va ritenuto un chiaro indizio della volontà del legislatore di differenziare le modalità di disapplicazione delle due discipline in commento, posto che quella in materia di deducibilità di costi black list riguarda anche imprese residenti che non hanno alcun legame partecipativo con il fornitore estero», pur rimanendo il «radicamento … un elemento senz’altro utile a dimostrare l’esimente stessa» (9).

Riflessioni sugli orientamenti dell’Agenzia delle entrate sulla prima esimente

La scelta di porre a carico delle imprese residenti l’onere di fornire la prova che le imprese a fiscalità privilegiata dispongono di una struttura organizzativa può essere condivisa, potendo costituire la disponibilità di tale struttura un indice dell’effettività dell’esercizio dell’attività commerciale (10).

Per contro non può essere condivisa la scelta di porre a carico delle imprese residenti anche l’onere di provare che le imprese a fiscalità privilegiata dispongono di una struttura organizzativa idonea all’esercizio della loro specifica attività commerciale. Tale scelta, non solo si pone in contrasto con l’inequivoco dettato del comma 11 dell’art. 110 del T.U.I.R., che si limita a richiedere la prova dell’effettività dell’attività commerciale, ma è priva di giustificazione, risultando sufficiente per la prova di tale effettività la dimostrazione del possesso di una struttura organizzativa. Ed infatti l’insussistenza di un perfetto rapporto di proporzionalità fra la struttura organizzativa e l’attività esercitata non può di per sé indicare una mancanza di effettività, potendo dipendere da una pluralità di fattori, quali ad esempio uno sfruttamento intensivo dei fattori produttivi, una migliore organizzazione aziendale ovvero minori oneri amministrativi, regolamentari o normativi, ecc.

LA PRASSI AMMINISTRATIVA
Attività commerciale effettiva
La scelta da parte dell’Agenzia delle entrate di porre a carico delle imprese residenti l’onere di provare che le imprese a fiscalità privilegiata esercitano la loro attività principale nello Stato o territorio di domiciliazione fiscale tramite una propria struttura organizzativa ivi localizzata non può essere condivisa. Tale scelta, oltre a porsi in contrasto con l’art. 110 del T.U.I.R., che non attribuisce rilevanza al luogo di esercizio dell’attività commerciale, risulta difficilmente giustificabile sul piano logico-sistematico. Per stabilire se un’impresa a fiscalità privilegiata sia dotata di effettività non possono che assumere rilievo tutte le attività commerciali da essa esercitate fuori dell’Italia e, quindi, anche quelle esercitate in Stati o territori diversi da quello di domiciliazione fiscale tanto più se tali Stati non siano a fiscalità privilegiata e tali attività siano esercitate mediante stabili organizzazioni ivi situate con la conseguente tassazione dei relativi redditi.

È significativo rilevare in questo senso che le massime istituzioni comunitarie hanno lasciato intendere che la mera inidoneità della struttura organizzativa di una società estera all’esercizio dell’attività commerciale non possa legittimare le Amministrazioni finanziarie nazionali a disconoscerne l’effettività. Ed infatti, se da un lato la Corte di giustizia ha statuito che una società estera può essere considerata come di puro artificio soltanto se «corrisponde a un’installazione fittizia che non esercita alcuna attività economica effettiva sul territorio dello Stato membro di stabilimento» (11), dall’altro lato, la Commissione europea ha recepito tale orientamento, rilevando che «l’insediamento di una società è da considerare effettivo quando, sulla base di elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi … corrisponde ad una realtà economica ossia una società reale che svolge attività economiche effettive e non ad una società fantasma o schermo» (12). Inoltre, il Consiglio europeo ha concluso che possa ipotizzarsi il trasferimento fittizio di utili a favore di una società estera soltanto se «non esiste alcuna correlazione proporzionale fra le attività apparentemente svolte» da tale società «e la misura in cui tale società esiste fisicamente in termini di locali, personale e attrezzature» (13). Pertanto, secondo tali istituzioni comunitarie, perché le Amministrazioni finanziarie possano disconoscere l’effettività di una società estera non basta che la sua struttura organizzativa sia soltanto sottodimensionata, ma occorre che sia fittizia o, comunque, non presenti alcuna correlazione proporzionale rispetto alle attività commerciali svolte.

Comunque, porre a carico delle imprese residenti l’onere di provare l’idoneità della struttura organizzativa delle imprese a fiscalità privilegiata all’esercizio della loro specifica attività commerciale, per la fruizione della prima esimente, anche quando tali imprese non appartengano allo stesso gruppo, costituisce una pretesa obiettivamente sproporzionata. Non si vede francamente infatti come le prime possano ottenere dalle seconde documenti che comprovino, non solo l’esistenza della loro struttura organizzativa, ma anche l’idoneità di tale struttura all’esercizio della loro specifica attività commerciale sulla base di rapporti puramente commerciali magari saltuari. L’imposizione di questo onere rischia di tradursi in una probatio diabolica tale da determinare una surrettizia ed indebita abolizione della prima esimente.

Ma vi è di più. Anche la scelta di porre a carico delle imprese residenti l’onere di provare che le imprese a fiscalità privilegiata esercitano la loro attività principale nello Stato o territorio di domiciliazione fiscale tramite una propria struttura organizzativa ivi localizzata non può essere condivisa. Tale scelta, oltre a porsi a sua volta in contrasto con il dettato letterale del comma 11 dell’art. 110 del T.U.I.R., che non attribuisce rilevanza al luogo di esercizio dell’attività commerciale, a differenza della lett. a) dell’art. 167, comma 5, del medesimo T.U.I.R., risulta difficilmente giustificabile sul piano logico-sistematico. Per stabilire se un’impresa a fiscalità privilegiata sia dotata di effettività non possono che assumere rilievo tutte le attività commerciali da essa esercitate fuori dell’Italia e, quindi, anche quelle esercitate in Stati o territori diversi da quello di domiciliazione fiscale tanto più se tali Stati non siano a fiscalità privilegiata e tali attività siano esercitate mediante stabili organizzazioni ivi situate con la conseguente tassazione dei relativi redditi. Del resto, è impensabile che le imprese residenti che abbiano concluso operazioni con imprese completamente estranee domiciliate in Stati a fiscalità privilegiata si vedano preclusa la fruizione della prima esimente in dipendenza della scelta delle loro controparti di esercitare l’attività commerciale tramite strutture organizzative dislocate in Stati e territori diversi da quello di domiciliazione fiscale.

Esimente della rispondenza delle operazioni ad un effettivo interesse economico

Ancor più problematica risulta l’individuazione delle modalità di prova della seconda esimente per quanto attiene alla rispondenza delle operazioni ad un effettivo interesse economico. La prassi amministrativa a questo riguardo ha assunto orientamenti contrastanti.

In particolare, l’Agenzia delle entrate in alcune pronunce ha identificato l’interesse economico nella mera «apprezzabilità economico-gestionale dell’operazione» ed ha ritenuto quindi sufficiente che «il comportamento dell’impresa residente sia economicamente “normale” ovvero imprenditorialmente vantaggioso», motivando tale convincimento sulla base della considerazione che «con tale previsione il legislatore ha inteso porre a carico del contribuente la dimostrazione dell’insussistenza di un intento elusivo sottostante all’operazione», così da porre a carico delle imprese residenti l’onere di «dimostrare che la transazione economica non sia stata posta in essere con il solo scopo di ottenere un risparmio fiscale, come tale intendendosi, in questa sede, l’abbattimento di base imponibile ottenuto facendo leva sui componenti negativi generatisi in territori a bassa fiscalità» (14). Pertanto, si è ritenuto possibile, «in relazione a determinati settori, individuare in astratto specifiche operazioni tipicamente afferenti l’esercizio dell’attività d’impresa, per le quali si può ritenere in via generale ed astratta soddisfatto il predetto requisito, in ragione del loro obiettivo collegamento con l’oggetto dell’impresa che le pone in essere» (15).

Peraltro, in altre pronunce, l’Agenzia delle entrate ha invece mostrato di ritenere che l’interesse economico presupponga la fruizione di condizioni migliori di quelle altrimenti fruibili, se non addirittura l’unicità o specificità delle prestazioni ricevute. Essa ha infatti sostenuto che, per la sussistenza del predetto interesse economico, si richiederebbe «una valida giustificazione di tipo economico a beneficio della specifica attività imprenditoriale, avendo riguardo sia alla peculiarità del contesto nel quale essa è attuata sia alla praticabilità di soluzioni alternative a quella che vede come controparte dell’operazione un soggetto residente in un Paese a fiscalità privilegiata» (16) ovvero «un quid pluris da individuare nell’esistenza di oggettivi e significativi vantaggi economici che verrebbero meno qualora si acquistasse da altro fornitore … tenendo conto di tutti gli elementi e le circostanze che caratterizzano il caso concreto» (17). Pertanto, l’interesse economico è reputato sussistente per una «sostanziale differenza tra i prezzi di vendita praticati dal fornitore residente in Paese a fiscalità privilegiata, da un lato, ed i prezzi praticati da altri fornitori ovvero i costi che il soggetto istante avrebbe sostenuto per costruire in proprio i beni in questione, dall’altro» (18), pur essendosi riconosciuto tuttavia che l’esistenza del quid pluris non possa essere negata per il solo fatto che «il prezzo dei beni o servizi acquistati è superiore a quello mediamente praticato sul mercato» in quanto «un prezzo apparentemente anomalo può essere giustificato dalla valutazione delle altre condizioni che regolano la transazione» (19). D’altro canto, per quanto attiene alle prestazioni rese da professionisti localizzati in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, l’Agenzia delle entrate ha sostenuto che l’interesse economico postuli la «specificità o unicità della prestazione professionale in riferimento a particolari esigenze dell’impresa più che dall’entità del compenso» (20). Pertanto, a suo dire, «nel caso di una perizia, la prova dovrà avere ad oggetto principalmente la dimostrazione della specificità o unicità della prestazione professionale commissionata, anche in considerazione dell’oggetto specifico della perizia», pur essendo «utili altri elementi quali, ad esempio, l’entità del compenso richiesto per la citata prestazione» (21).

LA PRASSI AMMINISTRATIVA
Giustificazione economica
Si ritiene che sia da privilegiare l’orientamento dell’Agenzia delle entrate secondo cui per la fruizione della seconda esimente del divieto di deduzione dei costi «black list» (cioè, che le operazioni rispondono ad un interesse economico effettivo e hanno avuto regolare esecuzione), basta che le operazioni concluse con le imprese a fiscalità privilegiata siano dotate di una giustificazione economica e che, quindi, non sia necessario anche provare che tali operazioni siano concluse alle condizioni di miglior favore.

Riflessioni sugli orientamenti dell’Agenzia delle entrate sulla seconda esimente

Per quanto attiene alla seconda esimente si ritiene che fra i due diversi orientamenti esposti sia sicuramente da privilegiare l’orientamento secondo cui per la sua fruizione basti che le operazioni concluse con le imprese a fiscalità privilegiata siano dotate di una giustificazione economica e che, quindi, non sia necessario anche provare che tali operazioni siano concluse alle condizioni di miglior favore.

Innanzitutto il comma 11 dell’art. 110 del T.U.I.R., per la fruizione della seconda esimente, pone a carico delle imprese residenti l’onere di provare che le operazioni con le imprese a fiscalità privilegiata rispondono non al loro «massimo», bensì soltanto ad un loro «effettivo» interesse economico e richiede ad esse di provare che rispondano ad un effettivo interesse economico le operazioni in quanto tali e non anche la decisione di porle in essere con le predette imprese. Coerentemente, questa medesima disposizione, per la fruizione della prima esimente, considera sufficiente la prova che le imprese a regime fiscale privilegiato esercitino un’attività commerciale «effettiva» e non richiede anche la prova che tale attività sia esercitata alle condizioni di miglior favore. D’altro canto, le operazioni concluse da imprese residenti con imprese a fiscalità privilegiata ben possono considerarsi rispondenti ad un effettivo interesse economico delle prime per il semplice fatto che siano per loro economicamente convenienti (22) per essere in grado di generare un profitto (23), senza bisogno quindi che siano pattuite condizioni di miglior favore.

A conforto di questa conclusione milita, peraltro, anche il sovraordinato principio di divieto di abuso del diritto fiscale di cui, secondo la Cassazione, sarebbero attuazione le norme antielusive speciali e, quindi, anche il comma 10 dell’art. 110 del T.U.I.R., che, come si è visto, l’Agenzia delle entrate ritiene annoverabile in tale ambito di norme. Ed infatti, in forza di tale sovraordinato principio, perché possa essere esclusa l’esistenza di un abuso fiscale non si richiede che l’operazione posta in essere dal contribuente assicuri condizioni di miglior favore, ma basta che tale operazione sia economicamente giustificabile anche in mancanza del risparmio fiscale (24). Pertanto, la deduzione dei costi delle operazioni concluse da imprese residenti con imprese a fiscalità privilegiata non può dar luogo ad un abuso fiscale e deve quindi ritenersi ammissibile per il semplice fatto che le prime avrebbero convenienza economica a concludere tali operazioni, indipendentemente dal regime fiscale a cui siano soggette le seconde.

SOLUZIONI OPERATIVE
Prova della seconda esimente e clausola di non discriminazione
La clausola di non discriminazione prevista dalle convenzioni conformi al modello di convenzione fiscale OCSE, imponendo di considerare deducibili le spese pagate da un’impresa di uno Stato contraente ad un’impresa dell’altro Stato contraente alle stesse condizioni a cui sarebbero deducibili se fossero pagate ad un residente del primo Stato contraente, fa divieto di subordinare la deducibilità delle spese derivanti da operazioni intercorse fra un’impresa residente in Italia e un’impresa residente nell’altro Stato contraente a condizioni più onerose di quelle a cui è subordinata la deducibilità delle spese sostenute per operazioni intercorse fra due imprese residenti in Italia. Pertanto, poiché la deducibilità delle spese delle operazioni intercorse fra due imprese residenti in Italia non è subordinata al requisito che tali operazioni siano concluse a condizioni di miglior favore neppure in virtù del divieto di abuso del diritto fiscale, anche la deducibilità delle spese delle operazioni concluse da un’impresa residente in Italia con un’impresa residente nell’altro Stato contraente non può ritenersi subordinata a tale requisito in forza della clausola di non discriminazione prevista dalle convenzioni fiscali.

Comunque, l’orientamento secondo cui il comma 11 dell’art. 110 del T.U.I.R. subordina la fruizione della seconda esimente alla condizione che le imprese residenti provino che le operazioni con le imprese a fiscalità privilegiata siano concluse alle condizioni di miglior favore renderebbe tale disposizione incompatibile con la clausola di non discriminazione prevista dalle convenzioni conformi al modello di convenzione fiscale OCSE. Tale principio, imponendo di considerare deducibili le spese pagate da un’impresa di uno Stato contraente ad un’impresa dell’altro Stato contraente alle stesse condizioni a cui sarebbero deducibili se fossero pagate ad un residente del primo Stato contraente, fa divieto di subordinare la deducibilità delle spese derivanti da operazioni intercorse fra un’impresa residente in Italia e un’impresa residente nell’altro Stato contraente a condizioni più onerose di quelle a cui è subordinata la deducibilità delle spese sostenute per operazioni intercorse fra due imprese residenti in Italia. Pertanto, poiché la deducibilità delle spese delle operazioni intercorse fra due imprese residenti in Italia non è subordinata al requisito che tali operazioni siano concluse a condizioni di miglior favore neppure in virtù del divieto di abuso del diritto fiscale, anche la deducibilità delle spese delle operazioni concluse da un’impresa residente in Italia con un’impresa residente nell’altro Stato contraente non può ritenersi subordinata a tale requisito in forza della clausola di non discriminazione prevista dalle convenzioni fiscali (25). Tale clausola deroga infatti alle disposizioni di diritto interno in virtù della clausola di salvezza degli accordi internazionali sancita dall’art. 75 del D.P.R. n. 600/1973, nonché della specialità delle disposizioni convenzionali rispetto a quelle di diritto interno (26) o, comunque, impone di interpretarle in conformità a quelle convenzionali in virtù dell’obbligo di esercizio della potestà legislativa in conformità agli obblighi internazionali sancito dall’art. 117 Cost. (27).

Considerazioni conclusive

Tanto considerato, può concludersi che le imprese residenti, per fruire delle due esimenti dal divieto di deducibilità dei costi delle operazioni con imprese a regime fiscale privilegiato, sia sufficiente che provino di esercitare un’attività commerciale effettiva e non apparente con una struttura organizzativa dislocata all’estero ovvero, in alternativa, che le operazioni intercorrenti con le imprese così individuate, pur non essendo concluse alle condizioni di miglior favore, siano economicamente giustificabili. Soltanto in tal modo si può garantire che uno strumento di contrasto del trasferimento di utili all’estero non si trasformi in uno strumento di imposizione di utili mai realizzati.

Note:

(1) Circolare 6 ottobre 2010, n. 51/E, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA

(2) Dir. reg. entrate del Piemonte, circolare dicembre 2002.

(3) Risoluzione 16 marzo 2004, n. 46/E, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(4) Così parere 9 maggio 2007, n. 24, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA, conforme parere 25 marzo 2004, n. 5.

(5) In Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(6) Circolare 26 gennaio 2009, n. 1/E, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(7) Come si ricorderà, il comma 7-ter dell’art. 76 del vecchio T.U.I.R. era stato appositamente modificato dal comma 16 dell’art. 9 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 proprio per eliminare la previsione che poneva a carico delle imprese residenti l’onere di provare che le imprese a fiscalità privilegiata «svolgono principalmente un’attività industriale o commerciale effettiva nel mercato del Paese nel quale hanno sede». Pertanto, nella circolare 13 maggio 2002, n. 40/E, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA, l’Agenzia delle entrate aveva concluso che «il comma 16 sostituendo il primo periodo del comma 7-ter amplia la possibilità per le imprese residenti di fornire la prova dell’effettivo svolgimento di un’attività commerciale da parte dell’impresa estera», essendo stato «eliminato … l’obbligo di riferire l’effettiva attività commerciale delle imprese estere al mercato del Paese in cui le stesse hanno sede».

(8) Risoluzione 8 aprile 2009, n. 100/E, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(9) Circolare 6 ottobre 2010, n. 51/E, cit.

(10) Tuttavia la Cassazione, nella sent. 23 febbraio 2010, n. 4272, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA, ha statuito che «la “disponibilità di ampi locali”, l’“esistenza di numerosi dipendenti”, la “disponibilità di utenze varie”, l’“utilizzo di forniture varie” come la “stipulazione di contratti di distribuzione infragruppo” … costituiscono elementi idonei solo a provare l’esistenza … della società svizzera ma non l’esercizio, da parte di questa, di una vera e propria attività economica … al pari, risultano del tutto irrilevanti gli ulteriori due elementi (“realizzazione di un elevato fatturato”; “conseguimento di rilevanti perdite”) … trattandosi di dati cui è possibile attribuire valore solo “formale”, quindi coerenti con la “funzione cartacea”».

(11) Corte di giustizia CE, 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes, in GT – Riv. giur. trib. n. 1/2007, pag. 21, con commento di T. Marino, e in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(12) Com. 10 dicembre 2007, COM (2007) 785 definitivo, «L’applicazione di misure antiabuso nel settore dell’imposizione diretta».

(13) Consiglio europeo, Ris. 8 giugno 2010, «Sul coordinamento delle norme sulle società estere controllate».

(14) Dir. reg. entrate del Piemonte, cit., par. 3.2.

(15) Risoluzione 6 giugno 2003, n. 127/E, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(16) Circolare 26 gennaio 2009, n. 1/E, cit, conf. parere 25 marzo 2004, n. 8.

(17) Circolare 6 ottobre 2010, n. 51/E, cit.

(18) Circolare 26 gennaio 2009, n. 1/E, cit., conf. pareri 7 marzo 2006, n. 4, e 22 marzo 2007, n. 14, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(19) Circolare 6 ottobre 2010, n. 51/E, cit.

(20) Circolare 19 gennaio 2007, n. 1/E, e circolare 18 giugno 2008, n. 47/E, entrambe in Banca Dati BIG Suite, IPSOA.

(21) Circolare 18 giugno 2008, n. 47/E, cit.

(22) Con sentenza 8 maggio 2013, n. 10749, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA, la Corte di cassazione ha reputato esente dal vizio di violazione di legge la motivazione della sentenza impugnata che aveva «considerato ai fini di accertare l’interesse economico, anche l’aspetto della convenienza degli acquisti sotto il profilo della competitività dei prezzi».

(23) Secondo Comm. trib. reg. Marche 22 giugno 2010, n. 5, in GT – Riv. giur. trib. n. 10/2010, pag. 903, con commento di D. Stevanato, e in Corr. Trib. n. 37/2010, pag. 3044, con commento di D. Avolio e B. Santacroce, sussiste «sempre un effettivo interesse economico dell’impresa quando pone in essere un’operazione in grado di produrre profitto, nell’ambito della specifica natura dell’attività esercitata, a prescindere dalla dimostrata maggiore convenienza»; nello stesso senso Comm. trib. reg. Piemonte, 13 dicembre 2012, n. 91, ivi.

(24) In questo senso Comm. trib. reg. Marche, 9 febbraio 2010, n. 22, in Banca Dati BIG Suite, IPSOA, ove si legge che «l’elemento relativo all’effettivo interesse economico … va … inteso in modo da ricollegare questa esimente anche all’ambito di applicazione dell’art. 37-bis e in particolare al requisito dell’esistenza delle valide ragioni economiche, rendendo così applicabile l’esimente in parola nella misura in cui il costo sia non solo inerente, ma esistano valide ragioni economiche per il compimento dell’operazione stessa».

(25) L’onere di provare che l’impresa a regime fiscale privilegiato svolge un’attività commerciale effettiva non sembra porsi in contrasto con la clausola di non discriminazione in quanto comporta solo un’inversione dell’onere della prova, essendo di regola presunta l’effettività delle imprese regolarmente costituite.

(26) Comm. trib. prov. di Milano, 20 dicembre 2010, n. 338 e Id., 13 dicembre 2012, n. 294, entrambe in Banca Dati BIG Suite, IPSOA. (27) Comm. trib. prov. di Milano, 19 aprile 2012, n. 129.

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