La recente sentenza della CEDU sul caso Saber e la tutela del segreto professionale nelle indagini fiscali

La recente sentenza della CEDU sul caso Saber e la tutela del segreto professionale nelle indagini fiscali

Con la sentenza del 17 dicembre 2020, Saber c. Norvegia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, affrontando il caso del sequestro di uno smartphone di una persona vittima di un grave delitto nel quale erano archiviate e-mail scambiate da quest’ultima con gli avvocati che lo difendevano in un altro procedimento in cui era a sua volta accusato di un grave reato, ha nuovamente ribadito, confermando un orientamento oramai consolidato, che l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo laddove tutela, fra l’altro, il diritto al rispetto della propria corrispondenza, non solo richiede che la legge fornisca regole chiare e dettagliate sulle ingerenze di terzi nell’esercizio del predetto diritto, ma quando tale corrispondenza riguardi i rapporti fra i clienti e i loro avvocati, impone di prevedere specifiche garanzie per tutelare la riservatezza delle loro conversazioni e, quindi, il segreto professionale (par. 50). Inoltre, con la predetta sentenza la Suprema Corte ha rimarcato che le persone che si avvalgono dell’assistenza di un avvocato possono ragionevolmente attendersi che le loro comunicazioni rimangano private e confidenziali, quando lo facciano non solo per un contenzioso penale o civile, ma anche per una consulenza legale (par. 51).

Già da un primo esame della normativa nazionale in materia di accertamento delle imposte dirette e dell’IVA emerge l’assenza di una disciplina specifica rispondente alle prescrizioni della CEDU.

Ed infatti, il nono comma dell’art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, accorda all’Agenzia delle Entrate il potere di estrarre copia dei supporti informatici delle imprese sottoposte a verifica fiscale, qualora tali imprese non consentano l’utilizzazione dei propri impianti e del proprio personale, ma non prevede alcuna garanzia per assicurare la riservatezza della corrispondenza e-mail memorizzata su tali supporti fra i legali e i loro clienti.

D’altro canto, il precedente quarto comma di tale articolo richiede “l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina …”, solo “per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale” e a questo fine fa salva l’applicazione dell’”articolo 103 del codice di procedura penale”, che fra l’altro vieta il “sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato”, solo “presso i difensori … incaricati in relazione al procedimento”.

Inoltre, è bensì vero che la Guardia di Finanza nella circolare n.1/2018 si è mostrata propensa a ritenere applicabile la predetta disposizione pure alla corrispondenza e-mail conservata su supporti elettronici e che l’art. 103 c.p.p. vieta anche “l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori … incaricati in relazione al procedimento …”, nonché “quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite”.

Tuttavia è orientamento della Cassazione penale che tale divieto risulta operante soltanto per le comunicazioni scambiate dai difensori con i clienti che siano inerenti all’esercizio delle funzioni del loro ufficio, mentre non si estende alle comunicazioni che abbiano contenuto amicale. Inoltre, sempre secondo la Suprema Corte, sarebbe la stessa Autorità inquirente a dover verificare l’inerenza di tali comunicazioni all’esercizio delle funzioni dei difensori cosicché il segreto professionale sarebbe tutelato soltanto in via postuma grazie all’inutilizzabilità delle intercettazioni. Pertanto, le predette Autorità sarebbero di fatto legittimate ad apprendere il contenuto di tali conversazioni, quand’anche abbiano ad oggetto la strategia difensiva del contribuente, negando ogni garanzia di riservatezza.

Per una tutela effettiva del segreto professionale non resta a questo punto che invocare un’interpretazione della normativa nazionale conforme all’art. 8 della Convenzione Europea, così come declinato dalla giurisprudenza della CEDU, ovvero, ove tale interpretazione conforme non sia possibile, sollevare, per le imposte dirette, una questione di illegittimità costituzionale della normativa nazionale in materia di accertamento e, per l’IVA, una questione pregiudiziale di incompatibilità unionale di tale normativa.

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