Con la sentenza 27 aprile 2021, n. 11053, la Cassazione ha confermato che lo scostamento dei corrispettivi delle operazioni concluse infragruppo da società residenti in Italia rispetto al valore normale, pur non potendo essere più contestato con la normativa sui prezzi di trasferimento di cui al comma 7 dell’art. 110 del TUIR, può essere contestato ai sensi della lett. d) dell’art. 39, primo comma, del d.P.R. n. 600 sulla base di una valutazione di antieconomicità di tali operazioni, sempreché tale scostamento non possa essere giustificato dall’attribuzione di vantaggi di natura compensativa.
In particolare, il caso prospettato riguardava una società che, avendo preso in locazione finanziaria uno stabilimento al canone annuale di circa 260.000,00 Euro e avendolo concesso a sua volta in locazione ad una società controllata ad un canone di 60.000,00 Euro, si era vista rettificare in aumento quest’ultimo canone dall’Agenzia delle Entrate sulla base del suo preteso maggiore valore normale.
Ebbene, la Cassazione ha innanzitutto escluso che la normativa sui prezzi di trasferimento recata dal comma 7 dell’art. 110 del TUIR sia applicabile anche alle operazioni infragruppo concluse fra società nazionali non solo perché lo ha espressamente sancito l’art. 5 del d.lgs. 15 settembre 2015, n. 147, ma anche perché è stato oramai acclarato che tale normativa non ha funzione antielusiva e non può quindi essere estesa a tali operazioni in virtù del principio di abuso del diritto fiscale.
Tuttavia la Suprema Corte ha confermato che l’Agenzia delle Entrate “può procedere ad accertamento analitico-induttivo ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d, d.P.R. 600/1973” anche delle operazioni infragruppo concluse fra società residenti sulla base della “valutazione sulla “antieconomicità” della condotta” in forza del “principio per cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti”, cosicché “in tal caso, lo scostamento dal “valore normale” può assumere rilievo quale parametro meramente indiziario”. Pertanto, “l’operazione che si pone al di fuori dei prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, sì da poter giustificare, in assenza di elementi contrari, l’accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste”.
Inoltre, la Cassazione, dopo aver ribadito che “l’interesse delle singole società del gruppo può … essere legittimamente sacrificato per perseguire l’interesse superiore del gruppo, ma con l’attribuzione alle controllate dei vantaggi compensativi, ai sensi degli art. 2497 c.c. e 2634 comma 3 c.c.”, ha confermato altresì che “al fine di verificare se un’operazione abbia comportato o meno per la società che l’ha posta in essere un ingiustificato depauperamento occorre tener conto della complessiva situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato ed indiretto”. Pertanto, la Suprema Corte ha concluso che, “in relazione alle operazioni imprenditoriali di maggiore complessità o inserite in una strategia più generale, è ben possibile che, proprio nella logica del gruppo, siano compiuti da parte delle società dello stesso atti non onerosi, a beneficio delle consorelle o della controllante; sicché, la contestazione della Agenzia delle entrate non può tradursi in una mera “non condivisibilità della scelta”, perché apparentemente lontana dai canoni di mercato, che equivarrebbe ad un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma deve consistere nella positiva affermazione che l’operazione, sulla base di elementi oggettivi, era inattendibile”.
Infine, la Cassazione, oltre a rilevare giustamente che “i costi relativi ai canoni di leasing pagati dalla contribuente alla società concedente non costituiscono dati omogenei rispetto ai canoni di locazione dell’immobile versati alla contribuente dall’affittuaria del medesimo immobile”, ha giudicato condivisibile la valutazione del giudice di appello secondo cui, nel caso oggetto del giudizio, non sarebbero stati integrati gli elementi indiziari di cui all’art. 39, primo comma, lettera d) del d.P.R. 600/1973 per il fatto che l’operazione contestata non avrebbe assicurato alcun risparmio d’imposta alla società che ha preso in locazione finanziaria lo stabilimento. Ed infatti, tale società, avendo realizzato nei periodi d’imposta precedenti perdite fiscali riportabili, avrebbe comunque potuto integralmente compensare con tali perdite fiscali il maggior imponibile di periodo che avrebbe realizzato, se non avesse posto in essere la predetta operazione. Di conseguenza, la Suprema Corte è sembrata ritenere che, per la configurabilità di un risparmio d’imposta, non basti il realizzo di un minor imponibile, ma occorra anche il pagamento di minori imposte. Tale principio risulta particolarmente rilevante in quanto comporta che non potrebbero essere considerate elusive anche le operazioni che, pur generando una riduzione dell’imponibile ovvero un incremento di perdite fiscali, non diano luogo ad una riduzione dell’imposta di periodo.
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