Corr. Trib. 10/2020, p. 861 e segg.
Le società residenti in Italia, qualora siano rettificati i prezzi delle operazioni concluse con società da loro controllate residenti in altri Stati membri ai sensi del comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R., laddove quest’ultima norma comporti una restrizione alla libertà di stabilimento, possono opporsi a tali rettifiche provando che i prezzi di tali operazioni sono giustificati da valide ragioni commerciali.
La natura delle norme sui prezzi di trasferimento è stata sempre dibattuta fra le opposte configurazioni di strumento attuativo del principio di libera concorrenza e di strumento di prevenzione dell’abuso. Tuttavia, la prima di tali due configurazioni è stata messa in crisi non solo dall’OCSE, estendendo l’applicazione delle norme convenzionali anche all’abuso, ma anche dalla CGUE, considerando giustificabili le restrizioni alle libertà fondamentali derivanti dalle predette norme qualora siano volte a prevenire l’abuso. Pertanto per le imprese può diventare possibile opporsi alla rettifica dei prezzi di trasferimento, laddove comportino una restrizione a tali libertà, provando che le operazioni infragruppo sono giustificate da valide ragioni commerciali.
Le norme sui prezzi di trasferimento come strumento di attuazione del principio di libera concorrenza
L’OCSE ha da sempre sostenuto che l’art. 9 delle convenzioni fiscali ha lo scopo di riconoscere agli Stati contraenti la potestà di tassare a carico delle imprese associate residenti l’utile loro imputabile secondo il principio di libera concorrenza. Si legge infatti nel par.1.3. delle Linee Guida sui prezzi di trasferimento 2017 (“Linee Guida TP”) che, poiché “quando i prezzi di trasferimento non riflettono le forze di mercato e il principio di libera concorrenza, gli obblighi fiscali delle imprese associate e le entrate fiscali dei Paesi ospitanti possono risultare alterati … gli utili delle imprese associate possono essere rettificati nella misura necessaria a correggere tali distorsioni e ad assicurare che il principio di libera concorrenza sia soddisfatto”. Pertanto, l’OCSE ha sempre escluso che tale disposizione abbia natura antielusiva, avendo precisato che “una rettifica fiscale sulla base del principio di libera concorrenza … potrebbe risultare appropriata anche quando non esiste l’intento di ridurre o di evadere le imposte” posto che “la valutazione del transfer pricing non deve essere confusa con la valutazione dei problemi relativi alla frode o all’elusione fiscale, anche se le politiche in materia di prezzi di trasferimento possono essere utilizzate a tali scopi”.
Per contro, in passato era avviso della Cassazione che la normativa sui prezzi di trasferimento sia configurabile come una normativa antielusiva. Ancora nel 2015 la Corte aveva statuito che “la disciplina suddetta costituisce in ogni caso … una chiara ‘clausola antielusiva’, in linea con i principi comunitari in tema di divieto di abuso del diritto, implicante l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria degli effetti di un negozio posto in essere al solo, essenziale, scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali … mediante l’applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli all’imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori (cfr. Cass. 22023/06, 11226/07, 11949/12)”[1].
Senonché è ora avviso della Cassazione che la normativa sui prezzi di trasferimento “non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del ‘transfer pricing’ (spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato”[2]. Pertanto, l’A.F. non deve provare “che l’operazione infragruppo sia priva di una valida giustificazione economica ed abbia comportato un concreto risparmio di imposta, trattandosi di presupposti costitutivi della fattispecie generale di operazione antielusiva disciplinata dall’art. 37-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600”[3].
L’esclusione della configurabilità della predetta normativa come antielusiva mal si concilia con l’assoggettamento ad un regime asimmetrico delle rettifiche in aumento ed in diminuzione dei componenti derivanti dalle operazioni infragruppo. Un’impresa residente, ove abbia rilevato a conto economico prezzi superiori a quelli di libera concorrenza, non può rettificare in diminuzione l’imponibile IRES nella dichiarazione dei redditi. Il comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R., pur nella sua nuova formulazione, ammette la rettifica dei prezzi rilevati a conto economico, anche qualora ne derivi una diminuzione del reddito soltanto nei casi stabiliti dal nuovo art. 31-quater del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e cioè, in esecuzione di accordi conclusi fra gli Stati sulla base di procedure amichevoli, di controlli eseguiti a seguito della cooperazione internazionale ovvero di una rettifica in aumento dell’A.F. estera definitiva conforme al principio di libera concorrenza. Del resto, anche il par. 2 dell’art. 9 delle convenzioni fiscali prevede l’obbligo di rettificare in diminuzione l’utile di un’impresa associata solo a seguito dell’avvenuta tassazione di un maggiore utile a carico dell’impresa controparte. Pertanto, a carico delle società residenti potrebbe essere assoggettato ad imposta un utile non rispondente a libera concorrenza se lo Stato estero di residenza della società del gruppo controparte non esegua alcuna rettifica a carico di quest’ultima.
Tuttavia l’esecuzione di rettifiche dei componenti di reddito derivanti da transazioni eguali o similari concluse nello stesso periodo d’imposta di natura asimmetrica, e cioè mediante la selezione delle sole rettifiche che comportino un aumento dell’imponibile, non sembra legittima non solo perché il comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R., essendo formulato al plurale, sembra porre l’obbligo di determinare secondo condizioni di libera concorrenza i componenti di reddito derivanti da tutte le operazioni identiche o similari concluse nel medesimo periodo d’imposta[4], ma anche perché l’art. 9 delle convenzioni fiscali consente di rideterminare sulla base di tali condizioni gli utili conseguiti dalle imprese associate e non i singoli componenti di reddito.
Per quanto attiene alla ripartizione dell’onere della prova la Cassazione, ritenendo che la normativa sui prezzi di trasferimento non abbia natura antielusiva, è dell’avviso che, una volta che l’A.F. abbia dedotto l’esistenza di un apparente divario fra i prezzi delle operazioni infragruppo e le condizioni di libera concorrenza, gravi poi sul contribuente l’onere di provare l’inesistenza di tale divario. Ed infatti, a suo dire, tale normativa “non richiede di provare, da parte dell’Amministrazione, la funzione elusiva, ma solo l’esistenza di ‘transazioni’ tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale gravando invece sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., … l’onere di dimostrare che tali ‘transazioni’ sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua dell’art. 9, comma 3, del menzionato decreto”[5].
LA GIURISPRUDENZA
Finalità della normativa sui prezzi di trasferimento
Secondo la Corte di cassazione, la normativa sui prezzi di trasferimento non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing (spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato. Pertanto, l’Amministrazione finanziaria non deve provare che l’operazione infragruppo sia priva di una valida giustificazione economica ed abbia comportato un concreto risparmio di imposta, trattandosi di presupposti costitutivi della fattispecie generale di operazione antielusiva.
L’impostazione così individuata sembra conforme a quella adottata dalla maggior parte degli Stati contraenti. Ed infatti, l’OCSE nel par. 18 delle Linee Guida TP ha rilevato che “in molte giurisdizioni l’onere della prova è posto a carico dell’A.F., la quale in tal caso deve dimostrare che prima facie i prezzi di trasferimento presi a riferimento dal contribuente non sono coerenti con il principio di libera concorrenza”.
L’estensione delle norme convenzionali sui prezzi di trasferimento alla prevenzione dell’abuso ed i vincoli delle norme nazionali
Con le Linee Guida TP del 2010 e soprattutto del 2017 l’OCSE ha esteso la portata delle norme sui prezzi di trasferimento, spingendo l’Italia a modificare con l’art. 59 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50[6], il comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R.
Le previgenti norme sui prezzi di trasferimento sembravano ammettere la rettifica dei soli prezzi delle cessioni di beni e prestazioni di servizi in quanto, dopo aver sancito l’obbligo di valutare a valore normale “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti” del gruppo, stabilivano che tali componenti devono essere valutati “in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti” ed il comma 3 dell’art. 9 del T.U.I.R. specificava che per tale “… si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, … nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”, aggiungendo che, “per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi”[7].
Senonché il par. 1 dell’art. 9 del Modello di convenzione ha sempre presentato una portata più ampia del previgente comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. in quanto consente agli Stati contraenti di includere negli utili delle imprese associate i maggiori utili che sarebbero stati da loro conseguiti se “nelle loro relazioni commerciali o finanziarie” non fossero “vincolate da condizioni accettate o imposte, diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti”. Pertanto l’OCSE nelle Linee Guida TP ha sostenuto che tale disposizione legittima gli Stati a rettificare gli utili delle imprese associate di due Stati contraenti allorché le condizioni delle operazioni di riorganizzazione concluse fra tali imprese non siano di libera concorrenza e, quindi, anche operazioni diverse dalle cessioni di beni e prestazioni di servizi[8] poste in essere tramite “la risoluzione o la rinegoziazione sostanziale di accordi preesistenti, ad esempio accordi di produzione, di distribuzione, di licenza o di prestazione di servizi ecc.” (par. 9.10.) e, segnatamente, la “conversione di distributori a pieno rischio … in distributori a rischio limitato o commissionari”, la “conversione di produttori a pieno rischio … in produttori su commessa (contract manufacturer) o produttori conto terzi (toll manufacturer)” e la “concentrazione di funzioni in un’entità centrale o regionale, con la corrispondente riduzione delle funzioni in termini di numero o ampiezza svolte localmente” (par. 9.2.) per il fatto che anche le operazioni che non comportano il trasferimento di beni o servizi, consistendo in “una risoluzione o rinegoziazione sostanziale di accordi già in atto”, devono prevedere il pagamento di una remunerazione se il suo pagamento sarebbe previsto in condizioni di libera concorrenza” (par. 9.39).
Ma non basta. L’OCSE ha ritenuto che con l’art. 9 delle convenzioni fiscali “la transazione così come accuratamente delineata può essere disconosciuta e, se del caso, sostituita da un’operazione alternativa, allorché gli accordi conclusi in relazione all’operazione, considerati nella loro totalità, si discostano da quelli che sarebbero stati conclusi da un’impresa indipendente che, in circostanze comparabili, si fosse comportata in maniera razionale dal punto di vista commerciale” (par. 9.35). Pertanto, a suo avviso, tale disposizione consentirebbe non solo di rettificare in aumento gli utili delle operazioni sulla base della loro sostanza economica, se divergente dalla loro contrattualizzazione o in suo difetto, ma anche di disconoscere le operazioni giuridicamente valide, ma prive di sostanza economica che abbiano comportato la tassazione di minori utili, estendendo quindi la portata delle norme sui prezzi di trasferimento anche alla prevenzione dell’abuso, sebbene poche convenzioni fiscali vigenti prevedano tale scopo.
Ebbene l’art. 9 delle convenzioni fiscali concluse dall’Italia, così come interpretato secondo le nuove direttive dell’OCSE, in mancanza di una corrispondente disposizione nazionale, non può ritenersi cogente in Italia, anche a voler ammettere che tali nuove direttive siano rispondenti alla sua lettera e al suo scopo, non solo perché tale disposizione è volta a delimitare la potestà impositiva degli Stati contraenti e non ad ampliarla, ma anche perché il comma 1 dell’art. 169 del T.U.I.R. fa sempre salva l’applicazione delle più favorevoli disposizioni del T.U.I.R.
Senonché per rendere operanti in Italia, fra l’altro, anche le predette direttive il nuovo comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. ha ammesso la rideterminazione dei componenti di reddito di tutte le operazioni infragruppo e, quindi, anche di quelle che non danno luogo a cessioni di beni o prestazioni di servizi. Ed infatti tale disposizione non solo ha posto a carico dell’A.F. l’obbligo di determinare “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti” del gruppo sulla base delle “condizioni e dei prezzi che sarebbero stati pattuiti … in condizioni libera concorrenza e in circostanze comparabili” e quindi da qualunque operazione infragruppo, ma ha anche incaricato il Ministro dell’Economia e Finanze di determinare con proprio decreto le Linee Guida per la sua applicazione ed il Ministro con l’art. 2 del Decreto 14 maggio 2018 (“Decreto TP”) ha definito come operazione controllata “qualsiasi operazione di natura commerciale o finanziaria intercorrente tra imprese associate, accuratamente delineata sulla base dei termini contrattuali, ovvero dell’effettivo comportamento tenuto dalle parti se divergente dai termini contrattuali o in assenza degli stessi”.
Tuttavia il comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R., costituendo una disposizione tributaria sostanziale relativa ad un tributo periodico e non recando una decorrenza espressa, sembra applicabile in malam partem dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data della sua entrata in vigore ai sensi del comma 1 dell’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente e, quindi, per le imprese con esercizio coincidente con l’anno solare, dal periodo d’imposta 2018[9]. Da ciò ne consegue che, secondo tali nuove disposizioni soltanto con effetto da tale periodo d’imposta possono essere rideterminati i componenti di reddito derivanti dalle operazioni infragruppo diverse dalle cessioni di beni e prestazioni di servizi non solo se siano contrattualizzate o non contrattualizzate, ma anche se la loro reale sostanza economica sia divergente dalla loro contrattualizzazione.
Per contro, è da escludere che il nuovo comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. possa essere invocato anche per disconoscere operazioni giuridicamente valide, ma prive della relativa sostanza economica che comportino la tassazione di minori utili non solo perché la predetta disposizione continua ad accordare all’A.F. esclusivamente il potere di rideterminare i componenti di reddito delle operazioni infragruppo e non anche quello di disconoscerle, ma anche perché è l’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente che le accorda un tale potere, dietro specifiche garanzie procedimentali, sancite a pena di nullità. Pertanto devono ritenersi contestabili in forza del nuovo comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. le operazioni che presentino una sostanza economica divergente dalla loro contrattualizzazione, anche se diverse dalle cessioni di beni e prestazioni di servizi, mentre con l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente le operazioni che siano prive di sostanza economica in quanto non siano “idonee a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali” o presentino una sostanza economica totalmente divergente dalla loro contrattualizzazione poiché non vi sia “coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme” e non siano giustificate da “valide ragioni extrafiscali”.
SOLUZIONI OPERATIVE
Operazioni prive della sostanza economica che comportano la tassazione di minori utili
È da escludere che il comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. possa essere invocato per disconoscere operazioni giuridicamente valide, ma prive della relativa sostanza economica, che comportino la tassazione di minori utili, non solo perché la predetta disposizione continua ad accordare all’Amministrazione finanziaria esclusivamente il potere di rideterminare i componenti di reddito delle operazioni infragruppo e non anche quello di disconoscerle, ma anche perché è l’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente che le accorda un tale potere, dietro specifiche garanzie procedimentali, sancite a pena di nullità.
La compatibilità unionale delle norme nazionali sui prezzi di trasferimento come strumento di prevenzione dell’abuso
L’attuale orientamento della Cassazione non sembra del tutto in linea con il diritto unionale posto che le norme nazionali sui prezzi di trasferimento, qualora comportino una restrizione delle libertà fondamentali per essere applicabili alle sole operazioni concluse da società di uno Stato membro con società di altri Stati e non anche alle operazioni concluse fra società dello stesso Stato membro, sono compatibili con tali libertà se abbiano per scopo la prevenzione dell’abuso e la ripartizione equilibrata del potere impositivo fra gli Stati e consentano quindi alle imprese di fornire la prova che i prezzi di tali operazioni rispondono a valide ragioni commerciali.
In particolare, secondo la CGUE gli Stati membri hanno competenza esclusiva nella materia delle imposte sui redditi, ma devono esercitare tale competenza nel rispetto del diritto unionale[10]. Pertanto anche le disposizioni in materia di imposte dirette che riservano un trattamento fiscale deteriore alle società di uno Stato membro che detengano partecipazioni di controllo di società di altri Stati membri rispetto a quello riservato a società che le detengano in società del medesimo Stato membro possono dar luogo a restrizioni alla libertà di stabilimento sancita dagli artt. 49 e 54 del TFUE e cioè alla libertà di stabilire in altri Stati membri società soggette alla propria sicura e determinante influenza (“controllo”) in quanto potrebbero scoraggiarle ad acquisire, costituire o detenere una società in un altro Stato membro[11]. Tuttavia tali restrizioni possono risultare giustificabili se concernono “specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate a eludere la normativa dello Stato membro interessato”.
Ebbene, la CGUE ha già da tempo chiarito che possono dar luogo ad una restrizione della libertà di stabilimento non solo le norme di contrasto della sottocapitalizzazione[12], ma anche quelle sui prezzi di trasferimento[13], ove si applichino alle sole operazioni concluse da società di uno Stato membro con società controllate di altri Stati membri e non anche a quelle concluse con società controllate dello stesso Stato membro.
In particolare, il caso oggetto di tale sentenza riguardava una holding residente in Belgio che, avendo concesso un finanziamento gratuito ad una società residente in Francia in cui deteneva una partecipazione del 65%, aveva subito una contestazione dell’A.F. belga con cui erano stati inclusi nel suo imponibile gli interessi non contabilizzati. In tal caso la CGUE, dopo aver rilevato che la normativa belga imponeva di riprendere a tassazione le prestazioni gratuite fornite da società residenti in Belgio a società non residenti, mentre non prevedeva analogo obbligo per quelle fornite a società residenti, ha rilevato che le società partecipate non residenti erano soggette ad un regime fiscale meno favorevole rispetto a quello previsto per le società partecipate residenti. Pertanto il giudice unionale ha concluso che tale normativa dà luogo ad una restrizione alla libertà di stabilimento in quanto una società belga è disincentivata ad insediare una società in un altro Stato membro ed una società di un altro Stato membro è disincentivata ad insediare una società in Belgio.
Tuttavia la CGUE ha ritenuto che una normativa che, come quella sui prezzi di trasferimento, sia volta a colpire “costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e create allo scopo di eludere l’imposta normalmente dovuta sugli utili generati da attività svolte nel territorio nazionale”[14], secondo quanto allegato dal Belgio, “può … considerarsi giustificata dall’obiettivo di prevenire l’elusione fiscale considerato congiuntamente a quello della tutela della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri”.
Senonché la CGUE ha ritenuto che tale normativa, essendo volta a stabilire sulla base di elementi oggettivi “se una transazione consista in una costruzione di puro artificio a soli fini fiscali”, risulta proporzionata rispetto ai due obiettivi così individuati soltanto se, nel caso in cui un’operazione non risponda a condizioni di libera concorrenza, “il contribuente sia messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione sia stata conclusa”[15].
LA GIURISPRUDENZA UE
Prevenzione dell’elusione fiscale e ripartizione del potere impositivo tra Stati membri
La Corte di Giustizia ha ritenuto che una normativa che, come quella sui prezzi di trasferimento, sia volta a colpire costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e create allo scopo di eludere l’imposta normalmente dovuta sugli utili generati da attività svolte nel territorio nazionale, può considerarsi giustificata dall’obiettivo di prevenire l’elusione fiscale considerato congiuntamente a quello della tutela della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri. Senonché la Corte ha ritenuto che tale normativa, essendo volta a stabilire sulla base di elementi oggettivi se una transazione consista in una costruzione di puro artificio a soli fini fiscali, risulta proporzionata rispetto ai due obiettivi così individuati soltanto se, nel caso in cui un’operazione non risponda a condizioni di libera concorrenza, il contribuente sia messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione sia stata conclusa.
Di recente, la CGUE ha specificato che le ragioni commerciali che possono essere addotte per giustificare la conclusione di transazioni a prezzi non di mercato possono comprendere anche ragioni commerciali derivanti dalla posizione di socio della società residente[16].
In particolare, il caso affrontato dalla CGUE riguardava una società tedesca che controllava con una partecipazione del 100% due società olandesi esercenti l’attività di distribuzione di articoli fai da te e di giardinaggio che possedevano un capitale sociale negativo e necessitavano di finanziamenti bancari per la costruzione di un supermercato. La società controllante, per porre in grado le due società controllate olandesi di ottenere i finanziamenti dalle banche, aveva emesso una lettera di patronage a loro favore con cui, fra l’altro, si obbligava a fornire loro le risorse necessarie per il rimborso di tali finanziamenti, senza richiedere un corrispettivo. Pertanto, l’A.F. tedesca aveva ripreso a tassazione a carico della società controllante tedesca il corrispettivo di tale garanzia gratuita.
La CGUE, dopo aver riconosciuto che le norme sui prezzi di trasferimento tedesche sono giustificate dall’obiettivo di garantire un’equilibrata ripartizione del potere impositivo fra gli Stati, secondo quanto sostenuto dalla Germania, ha statuito che tale normativa, essendo volta a stabilire sulla base di elementi oggettivi “se una transazione consista in una transazione di puro artificio ai fini fiscali”, sia proporzionata, oltre che ad un tale obiettivo, anche a quello di prevenzione dell’abuso soltanto qualora consenta al contribuente di provare che le operazioni sono state concordate per ragioni commerciali e che tali ragioni possono anche essere relative alla posizione del socio della società non residente. Ed infatti, secondo il giudice unionale, nel caso in cui una società controllata per sviluppare la propria attività abbia bisogno di un apporto di capitale per difetto di sufficienti risorse finanziarie proprie, ragioni commerciali possono giustificare l’esecuzione di tale apporto da parte della società controllante a condizioni non di mercato.
Sebbene la CGUE si sia fino ad oggi occupata solo di operazioni finanziarie poste in essere a favore di società controllate di altri Stati membri, analoghe conclusioni sembrano valide anche per le operazioni commerciali concluse con le predette società per il fatto che anche la sottoposizione di tali operazioni ad un regime deteriore rispetto a quello riservato alle operazioni commerciali concluse fra società dello stesso Stato membro può comportare una restrizione alla libertà di stabilimento che è giustificabile se abbia per obiettivo la prevenzione dell’abuso e la equa ripartizione del potere impositivo.
Ricostruito l’orientamento della CGUE sulle norme sui prezzi di trasferimento, va subito rilevato come, alla stregua di tale orientamento, anche il nuovo comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. può legittimare una restrizione alla libertà di stabilimento per il fatto che prevede l’obbligo di determinare a condizioni di libera concorrenza le sole operazioni concluse da società residenti con società controllate non residenti e non anche quelle concluse con società controllate residenti.
Innanzitutto tale disposizione, pur nella sua attuale formulazione, considera soggette alle norme sui prezzi di trasferimento le operazioni concluse da società controllanti residenti con le proprie controllate non residenti. Il Decreto TP qualifica infatti come “imprese associate” le imprese che detengono partecipazioni rappresentative non solo di una percentuale di partecipazione al capitale o agli utili superiore al 50%, ma anche di una percentuale di diritti di voto superiore al 50% o che esercitano un’influenza dominante sulla gestione di altre imprese sulla base di vincoli azionari o contrattuali.
D’altro canto, il comma 2 dell’art. 5 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 esclude l’applicabilità delle norme sui prezzi di trasferimento alle operazioni concluse fra società residenti dello stesso gruppo, ove stabilisce che “la disposizione di cui all’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato”[17].
Anche la restrizione alla libertà di stabilimento derivante dal comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. può essere considerata compatibile con tale libertà, soltanto se sia proporzionata rispetto agli obiettivi di prevenzione dell’abuso e di ripartizione equilibrata del potere impositivo. Pertanto le rettifiche dei prezzi di trasferimento sono legittime soltanto se sono volte a prevenire operazioni che costituiscano costruzioni di puro artificio in quanto siano concluse a condizioni non di libera concorrenza e non siano giustificate da valide ragioni commerciali[18].
SOLUZIONI OPERATIVE
Rettifiche dei prezzi di trasferimento e restrizione alla libertà di stabilimento
La restrizione alla libertà di stabilimento derivante dal comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. può essere considerata compatibile con tale libertà, soltanto se sia proporzionata rispetto agli obiettivi di prevenzione dell’abuso e di ripartizione equilibrata del potere impositivo. Pertanto le rettifiche dei prezzi di trasferimento sono legittime soltanto se sono volte a prevenire operazioni che costituiscano costruzioni di puro artificio in quanto siano concluse a condizioni non di libera concorrenza e non siano giustificate da valide ragioni commerciali.
Le disposizioni in materia di imposte dirette che riservano un trattamento fiscale deteriore alle società di uno Stato membro titolari di partecipazioni non di controllo di società di Stati membri o di partecipazioni di qualunque entità in società di Stati terzi rispetto a quello applicabile alle società titolari di tali partecipazioni in società del medesimo Stato membro non possono dar luogo ad una restrizione alla libertà di stabilimento in quanto tale libertà può essere invocata solo per le partecipazioni di controllo possedute in società di altri Stati membri[19].
Tuttavia tali disposizioni possono dar luogo ad una restrizione alla libertà di movimento dei capitali di cui all’art. 63 del TFUE in quanto tale libertà può essere invocata per contestare le disposizioni che non abbiano esclusivamente ad oggetto partecipazioni di controllo in società di altri Stati membri[20], limitatamente alle sole partecipazioni non di controllo, mentre, per le disposizioni che non abbiano esclusivamente ad oggetto partecipazioni di controllo in società residenti in Stati terzi, per tutte le partecipazioni[21].
Le restrizioni ai movimenti di capitali che implichino “investimenti diretti” e cioè investimenti che consentano di stabilire o mantenere legami durevoli e diretti con l’impresa beneficiaria dell’investimento[22] sono illegittime soltanto se sono state introdotte dopo il 31 dicembre 1993 in quanto l’art. 64 del TFUE fa salve le restrizioni così individuate già esistenti a tale data. Pertanto le disposizioni introdotte dal 1° gennaio 1994 che riservano un trattamento fiscale deteriore alle società di uno Stato membro titolari di partecipazioni che consentano di partecipare alla gestione di società di Stati membri ovvero alla gestione o controllo di società di Stati terzi possono dar luogo a restrizioni incompatibili con tale libertà[23].
Peraltro, pure tali restrizioni sono ammissibili se sono giustificate dall’obiettivo di garantire un’equilibrata ripartizione del potere impositivo e di prevenire l’elusione o l’evasione fiscale. Anche in questo caso una siffatta giustificazione ricorre allorché sia riservato un trattamento fiscale deteriore a costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica, create con lo scopo di eludere l’imposta normalmente dovuta sugli utili[24]. Possono dar luogo a tali costruzioni, oltre alle operazioni di sottocapitalizzazione[25], anche tutte le operazioni aventi come uno degli obiettivi principali il “trasferimento artificioso degli utili generati da attività svolte sul territorio di uno Stato membro verso Paesi terzi a basso livello di imposizione”[26]. Pertanto, anche la conclusione di operazioni a condizioni difformi da quelli di libera concorrenza può dar luogo ad una costruzione di puro artificio e può quindi giustificare una restrizione della libertà di movimento dei capitali.
Peraltro, anche in questo caso, perché tale restrizione sia proporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti, lo Stato membro di residenza ha l’obbligo di ammettere il contribuente a provare che l’operazione è stata posta in essere per valide ragioni commerciali[27]. Nel caso in cui sia invocata la libertà di movimento dei capitali tale obbligo può ritenersi sussistente soltanto se lo Stato membro in cui risiede la società partecipante sia messo in grado di verificare la sussistenza delle ragioni commerciali addotte da tale società[28]. Di conseguenza, è necessario che il predetto Stato membro abbia concluso con lo Stato terzo di residenza della società partecipata un accordo per lo scambio di informazioni.
Ebbene, anche il nuovo comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. può dar luogo ad una disparità di trattamento nei confronti delle società residenti che detengono partecipazioni non di controllo in società di altri Stati membri o partecipazioni che assicurino il controllo o l’influenza sulla gestione di società di Stati terzi, laddove ha posto a carico di tali società con effetto dal periodo d’imposta 2018 l’obbligo di valutare a valore di mercato anche le operazioni diverse dalle cessioni di beni e prestazioni di servizi concluse con società non residenti, sebbene non sia previsto analogo obbligo per le medesime operazioni concluse con società residenti.
Tuttavia tale disparità di trattamento potrebbe comportare una restrizione incompatibile con la libertà di movimento dei capitali qualora la predetta disposizione non possa ritenersi applicabile esclusivamente alle partecipazioni di controllo posto che, come si è visto, il Decreto TP ne ha da ultimo esteso l’applicabilità anche ad operazioni concluse con società in cui è detenuta una percentuale di partecipazione agli utili o al capitale superiore al 50%, indipendentemente dalla titolarità di diritti di voto.
IL PROBLEMA APERTO
Disparità di trattamento nei confronti delle società residenti
Il comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. può dar luogo ad una disparità di trattamento nei confronti delle società residenti che detengono partecipazioni non di controllo in società di altri Stati membri o partecipazioni che assicurino il controllo o l’influenza sulla gestione di società di Stati terzi, laddove ha posto a carico di tali società con effetto dal periodo d’imposta 2018 l’obbligo di valutare a valore di mercato anche le operazioni diverse dalle cessioni di beni e prestazioni di servizi concluse con società non residenti, sebbene non sia previsto analogo obbligo per le medesime operazioni concluse con società residenti. Tuttavia tale disparità di trattamento potrebbe comportare una restrizione incompatibile con la libertà di movimento dei capitali qualora la predetta disposizione non possa ritenersi applicabile esclusivamente alle partecipazioni di controllo.
Senonché è dubbio che in tal caso sia integrato tale presupposto in quanto la CGUE lo ha negato per le disposizioni che si applicano a partecipazioni superiori al 25%[29] o alle relazioni infragruppo[30]. Pertanto, allo stato rimane controverso se le società residenti possano opporsi alle rettifiche dei prezzi delle operazioni con società controllate residenti in Stati terzi eseguite in base alle norme nazionali, provando che tali prezzi rispondono a valide ragioni commerciali.
Note:
[1] Per tutte Cass. 17 luglio 2015, n. 15005.
[2] Cass. 16 gennaio 2019, n. 898. Tuttavia Cass. 30 luglio 2020, n.16366 ha sostenuto che l’art. 9 del T.U.I.R. imporrebbe il riferimento al valore normale per le operazioni concluse infragruppo fra società residenti e risulterebbe configurabile come una clausola antielusiva costituente esplicazione del divieto di abuso del diritto.
[3] Per tutte Cass. 21 giugno 2019, n. 16687.
[4] Cass. 21 luglio 2015, n. 15282.
[5] Cass. 6 settembre 2017, n. 20805.
[6] Convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96.
[7] Il Ministero delle Finanze nella C.M. 22 settembre 1980, n. 32 aveva espressamente precisato che la “portata delle disposizioni in esame è limitata al campo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi”.
[8] Capitolo IX “Aspetti relativi ai prezzi di trasferimento nell’ambito delle riorganizzazioni aziendali”.
[9] Cass. 28 giugno 2019, n.17512 ha escluso l’efficacia retroattiva del nuovo comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R.
[10] CGE 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI e 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer.
[11] CGE 13 marzo 2007, causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation.
[12] Par. 63 The Thin Cap Group Litigation.
[13] CGE 21 gennaio 2010, causa C-311/08, SGI.
[14] La CGE ritiene che le operazioni non di mercato sono come tali di puro artificio. Cfr. G. Escalar, “Per una rilettura critica della nozione di abuso del diritto fiscale”, in Corr. Trib., n. 3/2019, pag. 293.
[15] In questo senso per quanto attiene alle norme di contrasto della sottocapitalizzazione, par. 82 Test Claimants in The Thin Cap.
[16] CGE 31 maggio 2018, causa C-382/16, Hornbach Baumark AG.
[17] Da ultimo, la Cassazione nella sentenza n.16366 citata, pur avendo riconosciuto che l’applicabilità del comma 7 dell’art. 110 del T.U.I.R. alle operazioni infragruppo interne è esclusa dall’art. 5 del D.Lgs. n.147, ha sostenuto che l’art. 9 del T.U.I.R. sancirebbe un canone antielusivo che imporrebbe il riferimento per tali operazioni al valore normale con valenza di presunzione semplice e che sarebbe espressione del principio di prevalenza della sostanza sulla forma. Senonché, se la palese difformità dei corrispettivi dai valori di mercato può integrare una presunzione semplice di occultamento di plusvalenze, ove sia comprovato l’interesse a tale occultamento, quest’ultima norma non sembra sancire un canone antielusivo non solo perché è volta a definire la nozione di valore normale e non a porre un obbligo di valutazione a valore normale delle operazioni (“3. per valore normale … si intende… 4. Il valore normale è determinato…), ma anche perché la normativa IRES prevede un tale obbligo soltanto nei casi da essa tassativamente individuati ed il principio di prevalenza della sostanza sulla forma assume rilevanza fiscale in forza dell’art. 2 del regolamento 1° aprile 2009, n.48 ai soli effetti della rappresentazione in bilancio dei componenti reddituali e patrimoniali. Comunque, una restrizione alla libertà di stabilimento sarebbe del pari configurabile se la rettifica dei prezzi di trasferimento fosse subordinata all’esistenza di un abuso per le operazioni infragruppo interne e non anche per quelle transnazionali.
[18] In questo senso anche Cass. 19 dicembre 2014, n. 27087.
[19] Par. 33 CGE 19 luglio 2012, causa C-31/11, Scheunemann; par. 17 CGE 3 ottobre 2013, causa C-282/12, Itelcar.
[20] CGE 13 marzo 2014, causa C-375/12, Bouanich.
[21] Par. 18 Itelcar, par. 27 CGE 10 aprile 2014, causa C-190/12, Emerging Markets, par. 39 CGE 11 settembre 2014, causa C-47/12, Kronos e par. 37 CGE 20 settembre 2018, causa C-685/16, EV.
[22] Par. 181 CGE 12 dicembre 2006, Test Claimant FII, causa C-446/04 e par. 67 EV.
[23] Par. 182 Test Claimant FII e par. 68 EV.
[24] Par. 45 EV.
[25] Par. 35 Itelcar.
[26] CGE 26 febbraio 2019, causa C-135/2017, X Gmbh.
[27] Par. 87-88 X Gmbh.
[28] Par. 91 e ss. X Gmbh.
[29] Par. 25 e ss. Scheunemann.
[30] Par. 33 Thin Cap.
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