La qualificazione fiscale degli strumenti finanziari partecipativi

La qualificazione fiscale degli strumenti finanziari partecipativi

Corr. Trib. 1/2024, p. 68 e ss. 

L’Agenzia delle entrate, in talune risposte ad interpelli, ha sostenuto che non sarebbero similari alle azioni ai sensi della lett. a) dell’art. 44, comma 2, del T.U.I.R. gli strumenti finanziari partecipativi emessi da società residenti dietro un apporto di crediti a fondo perduto qualora attribuiscano anche il diritto a partecipare alla distribuzione del capitale o di riserve di capitale fino a concorrenza del loro valore nominale, in quanto, in tal caso, la relativa remunerazione non sarebbe totalmente costituita dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente. Tale presa di posizione non sembra condivisibile poiché la distribuzione di capitale e riserve di capitale non può essere considerata come una remunerazione e il valore nominale dei predetti strumenti finanziari costituisce soltanto un limite quantitativo ai proventi conseguibili dai relativi titolari.

La lett. a) del comma 2 dell’art. 44 del T.U.I.R., nella formulazione vigente, qualifica come similari alle azioni ai fini delle imposte sui redditi “ i titoli e gli strumenti finanziari emessi da società ed enti di cui all’art. 73, comma 1, lettere a), b) e d), la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell’affare in relazione al quale i titoli e gli strumenti finanziari sono stati emessi”. Pertanto, per stabilire se gli strumenti finanziari emessi da soggetti residenti in Italia siano similari alle azioni e se siano quindi soggetti al relativo regime fiscale nei confronti dei relativi titolari, occorre verificare se la loro “remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente”.

L’Agenzia delle entrate, nelle circolari illustrative emanate a commento della predetta disposizione, si è inizialmente limitata ad escludere che possano essere considerati come similari alle azioni gli strumenti finanziari che assicurino il diritto a ricevere proventi “per i quali la connessione con i risultati economici dell’impresa riguardi unicamente l’an, ma non il quantum, della corresponsione dei proventi e/o del rimborso ai sottoscrittori, come nel caso dei titoli con tasso di rendimento prestabilito, per i quali il pagamento degli interessi in una certa misura sia subordinato all’esistenza di utili ovvero alla effettiva distribuzione di dividendi da parte dell’emittente o di altra società del gruppo”[1].

Senonché, a partire dal 2021, l’Agenzia delle entrate ha diffuso una serie di risposte ad istanze di interpello con cui ha escluso che siano similari alle azioni agli effetti fiscali gli strumenti finanziari partecipativi (“SFP”) emessi ai sensi del comma 6 dell’art. 2346 c.c., dietro l’apporto a fondo perduto di crediti vantati dai sottoscrittori nei confronti degli emittenti, che assicuravano loro il diritto a partecipare alle distribuzioni di utili o riserve, nel limite di un importo massimo prestabilito, di regola pari al valore nominale dei crediti apportati, al netto della quota oggetto di stralcio. In particolare, essa ha ritenuto che il riconoscimento di tale diritto non consentirebbe di soddisfare la condizione che la relativa remunerazione sia totalmente costituita dalla partecipazione ai risultati economici degli emittenti per il fatto che i titolari di tali strumenti avrebbero avuto diritto a partecipare anche alla distribuzione di poste non rappresentate da utili, quali il capitale sociale o le riserve di capitale, e non avrebbero potuto ricevere la distribuzione di un importo superiore a quello del loro valore nominale.

La non similarità alle azioni degli SFP che danno diritto a distribuzioni di capitale

Nella prima risposta[2] l’Agenzia delle entrate ha escluso che siano similari alle azioni gli SFP che erano stati emessi dietro “conversione” del 20% del valore nominale dei crediti chirografari vantati dai sottoscrittori nei confronti dell’emittente in sede di concordato preventivo con stralcio del residuo 80% e che assicuravano loro “ il diritto alle distribuzione di utili e di riserve” per un importo almeno pari al 10% dei predetti crediti ovvero, in mancanza, “un diritto certo, liquido ed esigibile di importo pari alla differenza tra le distribuzioni complessivamente ricevute e l’importo minimo garantito del 10per cento del credito originario”, nonché la facoltà di convertire gli SFP in obbligazioni sulla base del rapporto di 2 ad 1, motivando tale conclusione sulla base di due diverse considerazioni.

La prima è che, poiché il regolamento degli SFP aveva allargato “l’ambito delle distribuzioni idonee a far nascere il diritto alla remunerazione, comprendendovi anche la distribuzione di ogni riserva di capitale distribuibile” e quindi “di poste di patrimonio netto che non esprimono univocamente i risultati economici della società emittente ma che comprendono anche poste espressive del capitale”, i titolari di SFP potrebbero “ricevere un quid non costituito e neppure connesso (totalmente) con i risultati economici dell’emittente” così da escludere “ in radice l’assimilazione di detti SFP alle azioni”. La seconda è che il regolamento degli SFP prevederebbe una “garanzia di soddisfacimento minimo” che “assicura ai titolari degli SFP l’incasso di un importo complessivamente pari almeno al 10 per cento dei crediti originariamente vantati” verso l’emittente, facendo “venire meno ogni rischio d’impresa in capo ai titolari di SFP (rischio che è connaturato al possesso di titoli azionari) impedendo, conseguentemente, l’assimilazione degli SFP in argomento alle azioni”.

Con la successiva risposta[3] l’Agenzia delle entrate ha escluso che siano similari alle azioni gli SFP che erano stati emessi a titolo di datio in solutum in sede di concordato preventivo del 60% del valore nominale dei crediti chirografari vantati dai sottoscrittori nei confronti dell’emittente, con stralcio del residuo 40% e che assicuravano il diritto a partecipare alle distribuzioni deliberate dalla società emittente nel limite del relativo valore nominale, motivando anche in questo caso tale conclusione sulla base di due diverse considerazioni.

La prima è che, poiché “la remunerazione degli SFP” avrebbe potuto essere riconosciuta “attraverso l’attribuzione ai titolari di riserve disponibili/distribuibili” non limitate “alle sole riserve di utili”, inducendo a “presumere che, nell’ipotesi di riduzioni volontarie del capitale sociale”, sarebbe “possibile remunerare gli SFP con poste patrimoniali diverse da quelle espressive di utili o riserve di utili, avendo la possibilità di ottenere dei proventi sulla base della volontà dei soci di liberare capitale sociale, fino a integrale concorrenza del valore nominale residuo degli SFP”, sarebbe legittimo concludere che “ i titolari degli SFP” potrebbero “ricevere, a regime, un quid non costituito e neppure connesso (totalmente) con i risultati economici dell’emittente (poiché le riserve di ‘capitali’ per loro natura non sono costituite dai risultati dell’emittente)”. La seconda è che la previsione di “un tetto alla remunerazione degli SFP e il loro conseguente annullamento/estinzione una volta raggiunto il loro valore nominale” costituirebbe “un rilevante elemento che” dimostrerebbe “l’inesistenza del totale collegamento ai risultati economici dell’impresa” in quanto per i sottoscrittori non sarebbe “prevista alcuna possibilità di ricevere, anche in astratto dagli SFP in esame una remunerazione, ossia una somma che ecceda il valore nominale di tali strumenti”. Con la conseguenza che “la connessione degli SFP con i risultati economici” dell’emittente non riguarderebbe “il quantum” dal momento che la remunerazione degli stessi trova un limite nella corresponsione di un “tetto massimo” rappresentato dal valore nominale degli SFP”.

Infine, con una terza risposta[4], l’Agenzia delle entrate, confermando le conclusioni raggiunte nelle precedenti, ha ritenuto non similari alle azioni gli SFP emessi a titolo di compensazione parziale di crediti vantati dai sottoscrittori nei confronti dell’emittente sulla base di un accordo di risanamento in quanto la relativa remunerazione non sarebbe costituita totalmente dalla partecipazione ai suoi risultati economici poiché il relativo regolamento “prevede la possibilità di remunerazione attraverso la distribuzione della ‘riserva sovrapprezzo’” e quindi di una riserva di capitale, nonché “un tetto alla remunerazione degli SFP e il loro conseguente annullamento/estinzione una volta raggiunto il loro valore nominale”.

Senonché la tesi espressa dall’Agenzia delle entrate non sembra condivisibile in quanto vi sono fondati motivi per ritenere che, laddove gli SFP siano emessi a fronte di un apporto di capitale a fondo perduto, l’attribuzione ai relativi titolari del diritto a partecipare, oltre che alle distribuzioni di utili, anche alle distribuzioni di capitale o di riserve di capitale, non esclude che la remunerazione di tali strumenti finanziari possa ritenersi totalmente costituita dalla partecipazione ai risultati economici dell’emittente e che tali strumenti siano similari alle azioni e soggetti al relativo regime fiscale.

La genesi e ratio della similarità alle azioni degli strumenti finanziari

Prima di spiegare le ragioni di tale conclusione si ritiene sia opportuno preliminarmente ricostruire la genesi e la ratio della lett. a) dell’art. 44, comma 2, del T.U.I.R. In particolare, la formulazione di tale disposizione vigente sino al periodo d’imposta 2004 considerava come similari alle azioni i soli “titoli di partecipazione al capitale di enti, diversi dalle società, soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche”. Pertanto, tale assimilazione aveva come finalità soltanto quella di estendere il regime fiscale delle azioni ai titoli di partecipazione in enti diversi dalle società per azioni.

Con la riforma del diritto societario introdotta dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, onde assicurare maggiore spazio all’autonomia privata, è stata riconosciuta alle società per azioni, fra l’altro, oltre alla facoltà di assegnare ai soci azioni in misura non proporzionale ai conferimenti (art. 2346 c.c., comma 4), anche quella di emettere categorie di azioni dotate di peculiari diritti patrimoniali ed amministrativi (art. 2348 c.c.); obbligazioni che subordinano la restituzione del capitale o il pagamento di interessi al soddisfacimento degli altri creditori della società o che riconoscono interessi variabili in funzione dell’andamento economico della società emittente (art. 2411, commi 1 e 2, c.c.); strumenti finanziari che condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società emittente (art. 2411, comma 3, c.c.); strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o diritti amministrativi individuati nello statuto della società, escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti, a fronte di apporti di capitale, beni, opere o servizi, comunque non imputabili a capitale (art. 2436, comma 6, c.c.).

Senonché tale ampliamento delle tipologie degli strumenti finanziari che potevano essere emessi dalle società ha fatto emergere l’esigenza, agli effetti delle imposte sui redditi, di evitare che mediante l’emissione di strumenti finanziari che assicurassero il diritto a partecipare ai risultati economici della società emittente, potessero essere trasformati in proventi finanziari deducibili utili d’impresa altrimenti indeducibili[5].

Per soddisfare tale esigenza, il D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, in attuazione della Legge delega 7 aprile 2003, n. 80, ha introdotto nella lett. a) dell’art. 109, comma 9, del T.U.I.R. il divieto di deducibilità di “ogni tipo di remunerazione dovuta … su titoli, strumenti finanziari comunque denominati, di cui all’art. 44, per la quota di essa che direttamente o indirettamente comporti la partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell’affare in relazione al quale gli strumenti finanziari sono stati emessi”.

Senonché tale divieto di deducibilità, se accompagnato alla piena imponibilità a carico del percipiente della remunerazione indeducibile per la società emittente, avrebbe dato luogo ad una doppia imposizione, così da rendere il regime degli strumenti finanziari diversi dalle azioni ingiustificatamente deteriore, non garantendo la neutralità della variabile fiscale rispetto alla scelta fra i diversi strumenti finanziari disciplinati dalla riforma del diritto societario.

Per ovviare a tale rischio, il D.Lgs. n. 344/2003 ha riformulato la nozione di strumenti finanziari similari alle azioni, ampliandone la portata e qualificando come tali quelli “la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell’affare in relazione al quale i titoli e gli strumenti finanziari sono stati emessi” ed è quindi indeducibile dal suo imponibile IRES ai sensi della lett. a) dell’art. 109, comma 9, del T.U.I.R. Grazie a questo intervento è stato esteso anche a tali strumenti finanziari il regime fiscale delle azioni e quindi nei confronti dei soggetti IRES l’esclusione dall’imponibile del 95% degli utili, scongiurando il rischio di disincentivare fiscalmente la loro sottoscrizione.

Pertanto la nozione di strumenti finanziari similari alle azioni fornita dalla lett. a) dell’art. 44, comma 2, del T.U.I.R. prescinde completamente tanto dalla loro classificazione contabile, quanto dalla loro qualificazione giuridica, poiché riguarda gli strumenti finanziari la cui remunerazione è resa indeducibile dalla lett. a) dell’art. 109, comma 9, del T.U.I.R. e quindi non solo a strumenti finanziari di capitale, ma anche di debito. Ed infatti, essa considera indeducibili le remunerazioni dovute su “titoli, strumenti finanziari comunque denominati”, che comportino la partecipazione ai risultati economici dell’emittente e quindi anche obbligazioni e altri titoli di debito.

La specularità della nuova definizione di strumenti finanziari similari alle azioni recata dalla lett. a) dell’art. 44, comma 2, del T.U.I.R. con il divieto di deducibilità sancito dalla lett. a) del comma 9 dell’art. 109 del medesimo T.U.I.R. è stata ripetutamente riconosciuta dall’Agenzia delle entrate. Ed infatti essa h a evidenziato non solo che deve essere soddisfatta “l’esigenza di garantire che la predetta remunerazione possa scontare, sia in capo ai percipienti che in capo alla società erogante, il medesimo regime fiscale cui sono soggetti gli utili da partecipazione”, ma anche che, di conseguenza, “la norma recata dall’art. 44, comma 2, lettera a), del T.U.I.R., deve essere interpretata in parallelo con il disposto dall’art. 109, comma 9, lettera a), del T.U.I.R.”[6] e ha successivamente confermato tale presa di posizione[7].

Tuttavia tale specularità non è perfetta in quanto, se da un lato la lett. a) dell’art. 109, comma 9, del T.U.I.R. considera indeducibile la remunerazione dovuta sugli strumenti finanziari soltanto “per la quota di essa che direttamente o indirettamente comporti la partecipazione ai risultati economici della società emittente”, la lett. a) dell’art. 44, comma 2, del T.U.I.R. considera similari alle azioni, come si è visto, soltanto gli strumenti finanziari “la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente”, con una conseguente parziale doppia imposizione.

Senonché la lett. a) del nuovo comma 3-bis introdotto nell’art. 89 del T.U.I.R. dall’art. 26 della Legge 7 luglio 2016, n. 122, almeno per gli strumenti finanziari emessi da soggetti residenti, sembra aver eliminato questa discrasia, avendo stabilito che l’esclusione del 95% per le remunerazioni corrisposte dal 1° gennaio 2016 “sui titoli, strumenti finanziari e contratti indicati dall’art. 109, comma 9, lettere a) e b), limitatamente al 95 per cento della quota di esse non deducibile ai sensi dello stesso art. 109”.

Le distribuzioni di capitale non costituiscono una “remunerazione”

Così ricostruita la genesi e la ratio della lett. a) dell’art. 44, comma 2 del T.U.I.R., non sembra innanzitutto fondata la prima argomentazione addotta dall’Agenzia delle entrate per escludere la similarità alle azioni degli SFP emessi dietro apporto di capitale a fondo perduto, e cioè l’argomentazione che la loro “remunerazione” non sarebbe totalmente costituita dalla partecipazione ai risultati economici dell’emittente perché attribuiscono il diritto a partecipare anche alla distribuzione di capitale o di riserve di capitale.

La nozione di “remunerazione” costituisce una nozione del linguaggio comune ed è priva di un’accezione tecnica in quanto non è autonomamente definita dalla normativa fiscale, né da quella civilistica. Tuttavia nel linguaggio comune tale nozione è di regola utilizzata come sinonimo del termine di compenso o di retribuzione e per questo si contrappone alla nozione di capitale per il fatto che costituiscono remunerazione del capitale soltanto quelle attribuzioni patrimoniali che non si sostanzino nella sua restituzione. Di conseguenza, è giocoforza ritenere che possano essere considerate come “remunerazione” degli strumenti finanziari soltanto le attribuzioni patrimoniali che per l’emittente che le corrisponde abbiano natura di compenso, quali le distribuzioni di utili ed il pagamento di interessi e che per tale ragione si differenziano dalle attribuzioni che hanno invece natura restitutoria, quali le distribuzioni o i rimborsi di capitale.

La non configurabilità come una “remunerazione” anche delle attribuzioni patrimoniali di natura restitutoria agli effetti dell’applicazione della lett. a) dell’art. 44, comma 2, del T.U.I.R. è coerente con la sua ratio e cioè estendere il regime fiscale delle azioni agli strumenti finanziari a condizione che la relativa remunerazione sia indeducibile dall’imponibile IRES dell’emittente ai sensi della lett. a) dell’art. 109, comma 9, del T.U.I.R. perché comporti una partecipazione ai suoi risultati economici, e sarebbe quindi soggetta ad una doppia imposizione a carico dei percipienti. Ed infatti per le predette attribuzioni non v’è motivo di richiedere il rispetto di tale condizione per il fatto che sono già per loro natura indeducibili dal predetto imponibile e non possono soggiacere ad una doppia imposizione nei confronti dei titolari dei predetti strumenti non essendo imponibili fino a concorrenza del relativo costo fiscale.

Pertanto è giocoforza concludere che, per stabilire se la remunerazione degli strumenti finanziari sia costituita dalla partecipazione ai risultati economici dell’emittente, occorre tenere conto soltanto delle attribuzioni patrimoniali che per l’emittente abbiano natura di compenso, mentre sono irrilevanti quelle che abbiano natura restitutoria.

Del resto, per stabilire se le obbligazioni emesse da società residenti siano similari alle azioni in quanto la loro remunerazione sia costituita da una partecipazione ai risultati economici della società emittente, occorre aver esclusivo riguardo ai criteri di determinazione degli interessi e non anche del capitale da rimborsare. Pertanto devono ritenersi similari alle azioni le obbligazioni c.d. partecipanti che, ai sensi del comma 2 dell’art. 2411 c.c., facciano dipendere “i tempi e l’entità del pagamento degli interessi” a favore dei sottoscrittori da “parametri oggettivi anche relativi all’andamento economico della società” emittente, anche se riconoscano il diritto al rimborso del capitale indipendentemente da tali risultati economici, non potendo tale rimborso costituire “remunerazione” dello strumento finanziario.

In tal modo è garantita una piena coerenza di trattamento fiscale fra l’emittente ed i sottoscrittori in quanto, in tal caso, gli interessi, comportando una partecipazione ai risultati economici della società emittente, sono integralmente indeducibili dal suo imponibile IRES, ma sono poi esclusi da tale imposta nei confronti dei sottoscrittori nel limite del 95% del relativo importo, mentre il rimborso del capitale, trovando contropartita nell’estinzione di un debito, dà luogo ad un’attribuzione meramente restitutoria.

Di questo avviso si è mostrata l’Agenzia delle entrate, laddove ha sostenuto che uno strumento finanziario può essere “considerato ‘partecipativo’ anche se incorpora un rapporto di mutuo” in quanto a questo fine “è sufficiente la previsione di una remunerazione totalmente legata ai risultati economici” ed ha coerentemente concluso che “sono assimilati alle azioni anche i titoli obbligazionari, compresi quelli di cui all’art. 2411, comma 3, del Codice civile, la cui remunerazione sia costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente, di società dello stesso gruppo o di un affare”[8]. Pertanto anche l’Agenzia ha dato per scontato che, per stabilire se uno strumento di debito assicuri una partecipazione ai risultati economici dell’emittente, occorre aver esclusivo riguardo alle modalità di commisurazione degli interessi riconosciuti da tale strumento, prescindendo dalle attribuzioni patrimoniali di natura restitutoria.

Inoltre, le azioni emesse da società residenti in Italia sono qualificabili come tali agli effetti delle imposte sui redditi anche se attribuiscono il diritto a partecipare alla distribuzione non solo del capitale sociale, ma anche di riserve di capitale, quali le riserve di sovrapprezzo e le riserve relative ai versamenti dei soci, posto che, per la loro individuazione, la normativa fiscale italiana, non fornendo un’autonoma nozione, rinvia alla normativa civilistica[9]. Ed analoga conclusione non può che valere anche per le azioni emesse da società residenti all’estero, sebbene secondo l’Agenzia delle entrate siano considerate similari alle azioni italiane soltanto se la relativa remunerazione, oltre ad essere indeducibile dall’imponibile IRES dell’emittente, sia costituita totalmente dalla partecipazione ai suoi risultati economici[10], proprio perché il diritto a partecipare alle distribuzioni di capitale e di riserve di capitale non può ritenersi configurabile come una “remunerazione” anche per le azioni estere, salvo che non si voglia sancire un’inammissibile discriminazione di trattamento dei soci di società non residenti rispetto ai soci di società residenti.

La partecipazione dei titolari di SFP alle distribuzioni di capitale non costituisce una “remunerazione”

Fermo restando quanto precede, occorre a questo punto passare a stabilire quali attribuzioni patrimoniali devono essere considerate come “remunerazione” degli SFP di cui all’art. 2346, comma 6, c.c. e quindi, nel caso in cui tali attribuzioni patrimoniali non comportino una partecipazione ai risultati economici dell’emittente, ne precludano la qualificazione come strumenti finanziari similari alle azioni.

Sicuramente per gli strumenti finanziari che prevedono il rimborso del capitale apportato ed attribuiscono soltanto una partecipazione agli utili dell’emittente può essere considerata come “remunerazione” il diritto a partecipare alla distribuzione degli utili, ma non anche il diritto al rimborso del capitale apportato, in quanto tale rimborso costituisce una prestazione di natura meramente restitutoria.

Meno immediato è se per gli SFP che non prevedano il rimborso del capitale apportato, ma accordino il diritto a partecipare alle distribuzioni, oltre che di utili, anche del capitale e delle riserve di capitale dell’emittente, sia vero altrettanto per le distribuzioni di capitale.

Come si è visto, l’Agenzia delle entrate nelle risposte alle istanze di interpello prima richiamate, lo ha negato sulla base dell’assunto che il diritto a partecipare alle distribuzioni di capitale costituirebbe remunerazione degli SFP e, non comportando una partecipazione ai risultati economici dell’emittente, non consentirebbe di assimilare alle azioni gli strumenti che accordino anche un tale diritto.

Senonché tale presa di posizione non può essere condivisa in quanto il diritto a partecipare alle distribuzioni di capitale attribuito ai titolari di SFP emessi a fronte di apporti di capitale a fondo perduto non può risultare configurabile come una “remunerazione”, in quanto comporta il riconoscimento ai loro titolari del diritto di partecipare a tali distribuzioni in funzione lato sensu restitutoria degli apporti eseguiti analogamente a quanto avviene per i versamenti dei soci non imputati a capitale[11].

Del resto, la posizione dei titolari di SFP emessi a fronte di apporti di capitale a fondo perduto è assimilabile ai fini fiscali a quella dei soci. In primo luogo, il comma 2 dell’art. 9 del T.U.I.R. riconosce natura realizzativa anche all’apporto di beni e crediti dietro emissione di strumenti finanziari partecipativi, laddove stabilisce che“ in caso di conferimenti o apporti in società o in altri enti si considera corrispettivo conseguito il valore normale dei beni e dei crediti conferiti”. In secondo luogo, il n. 1) della lett. c) del comma 1 dell’art. 67 del T.U.I.R., laddove assimila alle plusvalenze realizzate mediante la cessione di partecipazioni qualificate quelle realizzate mediante “cessione di strumenti finanziari di cui alla lettera a) del comma 2 dell’art. 44 quando non rappresentano una partecipazione al patrimonio”, conferma che gli strumenti finanziari similari alle azioni possono rappresentare una partecipazione al patrimonio dell’emittente. In terzo luogo, il comma 4 dell’art. 88 del T.U.I.R., stabilendo che “non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società e agli enti di cui all’art. 73, comma 1, lettere a) e b), dai propri soci, né gli apporti effettuati dai possessori di strumenti similari alle azioni”, equipara gli apporti di capitale eseguiti dai possessori di strumenti similari alle azioni ai conferimenti di capitale.

L’assimilazione del diritto dei titolari di strumenti finanziari emessi a fronte di apporti di capitale a fondo perduto di partecipare alla distribuzione del capitale, o di riserve di capitale, all’analogo diritto spettante ai soci comporta che tale diritto non possa costituire remunerazione dello strumento finanziario per la sua natura lato sensu restitutoria tanto per gli uni, quanto per gli altri. Pertanto, l’attribuzione di tale diritto non può consentire di escludere la similarità di tali strumenti finanziari alle azioni.

Che il diritto dei soci di partecipare alla distribuzione di capitale e riserve di capitale non possa integrare la “remunerazione” riconosciuta dall’emittente sembra trovare conferma nel disposto del comma 5 dell’art. 47 del T.U.I.R., applicabile anche alle società in forza del rinvio contenuto nel comma 4 dell’art. 89 del T.U.I.R., che non considera qualificabili come utili “le somme e i beni ricevuti dai soci delle società soggette all’imposta sul reddito delle società a titolo di ripartizione di riserve o altri fondi costituiti con sopraprezzi di emissione delle azioni o quote … con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale…” e prevede che tali somme e beni, invece, “riducono il costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o quote possedute”. D’altro canto, coerentemente, il comma 5-bis dell’art. 86 del T.U.I.R. nei confronti dei soggetti IRES assoggetta ad imposizione come plusvalenze e non come utili le somme o i valori ricevuti che eccedano il costo fiscale della partecipazione, laddove statuisce che “le somme o il valore normale dei beni ricevuti a titolo di ripartizione del capitale e delle riserve di capitale” “costituiscono plusvalenze” “per la parte che eccede il valore fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni”.

Ebbene tali disposizioni non possono che trovare applicazione anche ai titolari di SFP, confermando così la natura restitutoria del diritto di coloro che abbiano apportato capitale di partecipare alle successive distribuzioni di tale capitale deliberate dall’emittente.

Comunque, a ben vedere, la stessa Agenzia delle entrate è sembrata ritenere che il diritto a partecipare alle distribuzioni di capitale sia configurabile non come una remunerazione, bensì come un’attribuzione di natura restitutoria. In particolare, l’Agenzia delle entrate ha affermato che “per effetto dell’assimilazione alle azioni degli strumenti finanziari italiani di natura partecipativa ad opera della lettera a), comma 2, del medesimo art. 44 del T.U.I.R., la partecipazione al patrimonio va intesa, con riferimento ai predetti strumenti, come diritto alla restituzione del capitale apportato” e che, nel caso in cui gli SFP trovino contropartita nell’apporto di un capitale, “ il diritto alla restituzione” di tale apporto è “equiparabile ad un diritto di partecipazione al patrimonio”[12] e non quindi ad una “remunerazione”.

Inoltre, per quanto attiene alle operazioni di conversione di crediti in SFP, l’Agenzia delle entrate, commentando l’art. 113 del T.U.I.R., che consente di disapplicare il regime PEX nel caso di partecipazioni acquisite nell’ambito degli interventi finalizzati al recupero di crediti o derivanti dalla conversione dei crediti verso imprese in temporanea difficoltà finanziaria, ha ritenuto similari alle azioni gli SFP che attribuiscono ai titolari il diritto a partecipare alla distribuzione del patrimonio della società in sede di liquidazione, senza ritenere necessario che tale diritto fosse limitato alle poste di tale patrimonio formate da utili. Ed infatti essa, dopo aver premesso che tale regime risulta applicabile anche agli strumenti finanziari di cui al comma 6 dell’art. 2346 c.c., previa verifica della loro similarità alle azioni, e che i diritti “di partecipazione” che attribuiscono tali strumenti finanziari “sono modulabili in base a: – partecipazione agli utili; – partecipazione in sede di liquidazione e/o nelle distribuzioni patrimoniali”, ha chiarito, “a titolo esemplificativo”, che, “nel caso in cui la remunerazione degli strumenti finanziari di cui trattasi sia costituita dalla partecipazione alla eventuale ripartizione dell’attivo in sede di scioglimento della società (senza che siano previste altre forme di remunerazione fissa, né il rimborso del capitale), la stessa remunerazione può ritenersi totalmente connessa all’andamento economico della società stessa”[13].

Il limite massimo delle somme spettanti ai titolari di SFP non esclude la variabilità della loro remunerazione

Infondata sembra anche la seconda argomentazione addotta dall’Agenzia delle entrate per escludere la similarità alle azioni degli SFP e cioè che il relativo regolamento di emissione prevede l’annullamento di tali strumenti nel caso in cui i titolari abbiano conseguito somme almeno pari al loro valore nominale.

In particolare, come si è visto, l’Agenzia ha sostenuto che “la circostanza che sia previsto un tetto alla remunerazione degli SFP e il loro conseguente annullamento/estinzione una volta raggiunto il loro valore nominale” dimostrerebbe “l’inesistenza del totale collegamento ai risultati economici dell’impresa” in quanto per i sottoscrittori non sarebbe “prevista alcuna possibilità di ricevere, anche in astratto dagli SFP in esame una remunerazione, ossia una somma che ecceda il valore nominale di tali strumenti”, con la conseguenza che “la connessione degli SFP con i risultati economici” dell’emittente non riguarderebbe “ il ‘quantum’ dal momento che la remunerazione degli stessi trova un limite nella corresponsione di un ‘tetto massimo’ rappresentato dal valore nominale degli SFP”[14].

Ebbene, è sicuramente vero che la Relazione illustrativa del D.Lgs. n. 344/2003 e la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 26/E/2004 hanno precisato che una remunerazione non si considera costituita dalla partecipazione ai risultati economici dell’emittente se “la connessione con i risultati economici dell’impresa riguardi unicamente l’an, ma non il quantum”.

Tuttavia, dal lato dell’emittente, la connessione della “remunerazione” degli SFP con i suoi risultati economici non riguarda solo l’an, ma anche il quantum. Il valore nominale di tali strumenti non rappresenta infatti un credito dei loro titolari alla restituzione dell’apporto, come nel caso del valore nominale delle azioni, ma soltanto un mero limite quantitativo alla partecipazione alle distribuzioni di utili o di capitale da essa deliberate[15] per il fatto che costoro non possono vantare alcuna pretesa alla distribuzione di capitale o di utili[16]. Di conseguenza, la remunerazione degli SFP, includendo, per quanto si è visto, le sole distribuzioni di utili e riserve di utili, comporta una partecipazione anche nel quantum ai risultati economici dell’emittente fino al raggiungimento del predetto limite.

Comunque, anche dal lato dei titolari per stabilire se gli SFP accordino una “remunerazione”, non può assumere rilevanza il loro valore nominale, che è di regola pari al valore nominale dei crediti apportati, bensì il valore normale dei crediti medesimi alla data di apporto, per il fatto che è tale valore normale che misura l’effettivo costo dell’investimento nei predetti strumenti e quindi anche il relativo utile. Del resto, l’interesse dei creditori a convertire i propri crediti negli SFP trova fonte proprio nell’aspettativa di conseguire somme superiori rispetto al predetto valore normale. Pertanto gli SFP possono assicurare ai loro titolari una remunerazione variabile ogniqualvolta il valore normale dei crediti apportati risulti inferiore rispetto al valore nominale dei predetti strumenti.

Considerazioni conclusive

Per le ragioni esposte, è possibile dunque concludere che gli SFP possano essere considerati similari alle azioni ai sensi della lett. a) dell’art. 44, comma 2, del T.U.I.R., anche se attribuiscano la partecipazione alle distribuzioni di capitale o di riserve di capitale in quanto la partecipazione a tali distribuzioni non costituisce una remunerazione e tali strumenti possono assicurare una remunerazione variabile nel quantum, oltre che nell’an.

Note:

[1] Circolare 16 giugno 2004, n. 26/E.

[2] Risposta ad interpello n. 865/2021.

[3] Risposta ad interpello n. 867/2021.

[4] Risposta ad interpello n. 881/2021.

[5] La Relazione illustrativa alD.Lgs. n. 344/2003 chiarisce infatti che tale D.Lgs. persegue anche il “fine di evitare la distribuzione ‘occulta’ di utili sotto forma di interessi o altri proventi deducibili”.

[6] Circolare 16 giugno 2004, n. 26/E.

[7] Circolare 3 agosto 2010 n. 42/E e risposte ad interpello nn. 29/2018, 337/2019, 615/2020 e 477/2021.

[8] Così, rispettivamente, le circolari 18 gennaio 2006, n. 4/E e 10 dicembre 2004, n. 52/E.

[9] Consorzio Studi e Ricerche Fiscali Gruppo Intesa San Paolo, circolare 23 novembre 2015, n. 6, e S. Morri – F. Nicolosi, “Regime fiscale degli strumenti finanziari partecipativi”, in La gestione straordinaria delle imprese, n. 6/2022.

[10] Da ultimo risposta ad interpello n. 256/2023.

[11] T. Tassani, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Milano 2007, pag. 308.

[12] Circolare 10 dicembre 2004, n. 52/E.

[13] Circolare 3 agosto 2010, n. 42/E.

[14] Risposta ad interpello n. 867/2021, cit.

[15] Del resto, il Consiglio Notarile di Milano, con la massima n. 189 emessa il 16 giugno 2020, ha puntualizzato proprio che “sono legittime le clausole statutarie di S.p.A. e di S.r.l. che pongono un ‘tetto massimo’ al diritto all’utile, quali ad esempio le clausole che prevedono: (i) limiti massimi espressi in misura assoluta, esercizio per esercizio”.

[16] In questo senso Consorzio Studi e Ricerche Fiscali Gruppo Intesa San Paolo, circolare 23 novembre 2015, n. 6 e S. Brunello – F. Aquilanti, “Recenti chiarimenti dell’Agenzia delle entrate in tema di qualificazione fiscale degli SFP e relativi impatti pratici”, in https://www.belex.com/case_study/recenti-chiarimenti-dellagenzia-delle-entrate-intema-di-qualificazione-fiscale-degli-sfp-e-relativi-impatti-pratici/, 2022.

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