La lettura della Corte costituzionale dell’art. 20 T.U.R. e il suo impatto sulle vecchie e nuove operazioni

La lettura della Corte costituzionale dell’art. 20 T.U.R. e il suo impatto sulle vecchie e nuove operazioni

Corr. Trib. 3/2021, p. 215 e segg.

Con la sentenza n. 158/2020 la Corte costituzionale, oltre ad aver confermato la legittimità del nuovo art. 20 del T.U.R., ha stabilito che le contestazioni formulate dando prevalenza alla sostanza economica rispetto alla forma giuridica, non solo non possono essere fondate sull’art. 53 Cost., ma si sostanziano in contestazioni di abuso del diritto fiscale ai sensi dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente e quindi, ove siano formulate svincolandosi dai relativi requisiti, precludono indebitamente ogni legittima pianificazione fiscale. Pertanto le vendite di partecipazioni precedute o meno da conferimenti o scissioni d’aziende sono riqualificabili come vendite di aziende soltanto se sono soddisfatti i requisiti dell’abuso.

La sentenza della Corte costituzionale del 21 luglio 2020, n. 158 sull’art. 20 del T.U.R. ha una portata che trascende l’applicazione dell’imposta di registro in quanto pone un importante baluardo al ricorso ad interpretazioni sostanzialistiche che ampliano l’area dell’imponibilità, pregiudicando la certezza del diritto e la pianificazione fiscale legittima.

Le ragioni della rimessione alla Corte costituzionale

Con l’ordinanza 23 settembre 2019, n. 23549, la Cassazione aveva rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 20 del T.U.R. per violazione dei princìpi di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. e di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

In particolare, con tale ordinanza la Suprema Corte, dopo aver premesso che il vecchio art. 20 del T.U.R., così come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, avrebbe riaffermato anche nella disciplina dell’imposta di registro “il principio imprescindibile ed anche storicamente radicato” della prevalenza della sostanza sulla forma, che “comporta la necessaria considerazione anche di elementi esterni all’atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti eventualmente collegati con quello presentato alla registrazione”, ha sostenuto che “la circostanza che la qualificazione dell’atto debba avvenire secondo gli effetti ‘giuridici’ del medesimo, … non preclude che si attribuisca rilevanza, visto anche il sostrato prettamente economico del principio di capacità contributiva, a quello scopo economico unitario ed ultimo infine raggiunto dalle parti proprio attraverso la combinazione ed il coordinamento degli effetti giuridici dei singoli atti” ed anzi “una opposta lettura dell’art. 20 … si sarebbe posta in disaccordo con l’art. 53 Cost. … cosicché l’interpretazione dominante nella giurisprudenza di legittimità risultava, per così dire, non solo consentita, ma addirittura imposta dal criterio generale dell’interpretazione costituzionalmente conforme”. Pertanto la Cassazione, mediante la rilevanza così attribuita allo scopo economico delle parti, ha ritenuto che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 20 del T.U.R. imponesse di dar prevalenza alla sostanza economica non solo sulla forma giuridica, ma anche sulla stessa sostanza giuridica, ritenendo configurabile una vendita d’azienda, anche se sia venduta una partecipazione nella società titolare di tale azienda.

Così ricostruito il suo orientamento, la Cassazione ha innanzitutto dato per acquisito nel par. 2 dell’ordinanza che non solo il nuovo art. 20 del T.U.R., come riformulato dalla Legge di bilancio 2018, “ha significativamente ristretto l’oggetto dell’interpretazione negoziale al solo atto presentato alla registrazione, ed agli elementi soltanto da quest’ultimo desumibili”, cosicché “non rilevano … più … gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali”, ma anche che con la Legge di bilancio 2019 “il legislatore ha palesato la volontà di attribuire portata retroattiva alla formulazione dell’art. 20 risultante dalla Legge di bilancio 2018, quale effetto normalmente riconducibile alla norma di interpretazione autentica”.

Senonché secondo la Corte di cassazione questa nuova disposizione avrebbe violato tanto il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. poiché non sarebbe “del tutto lineare né coerente – proprio sul piano costituzionale -” che sia “esclusa ogni considerazione di quegli (eventuali) elementi meta-testuali e di collegamento negoziale attraverso i quali può invece aversi (ed in certi casi, soltanto si ha) piena contezza e ricostruzione della forza economica e della capacità contributiva espresse dall’operazione”, quanto il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione in quanto “a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non possono corrispondere imposizioni di diversa entità”.

Le ragioni della conferma della legittimità costituzionale del nuovo art. 20 del T.U.R.

Con la sentenza n. 158/2020 la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione così sollevata in quanto il legislatore con tale disposizione “ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di ‘imposta d’atto’ dell’imposta di registro”, precisando “l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo”, così da rispettare “la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”. Ed infatti, a suo avviso, “i fatti espressivi della capacità contributiva, indicati negli effetti giuridici desumibili, anche aliunde, dalla causa concreta del negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione” non sono “i soli costituzionalmente compatibili con gli evocati parametri” poiché “tali parametri … non si oppongono in modo assoluto a una diversa concretizzazione da parte legislatore dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che sia diretta (come stabilito dalla norma censurata) ad identificare i presupposti impositivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione”. La conferma della legittimità della scelta così formulata dal legislatore comporta come corollario che la tesi della Cassazione secondo cui il vecchio art. 20 del T.U.R. imporrebbe di dar prevalenza alla sostanza economica degli atti rispetto alla loro forma giuridica non è costituzionalmente imposta dall’art. 53 Cost. Naturalmente questo di per sé non esclude che la Suprema Corte non avrebbe potuto prospettare tale tesi nell’esercizio della sua funzione nomofilattica.

Senonché la Corte costituzionale ha lasciato intendere che, non solo il nuovo, ma anche il vecchio art. 20 del T.U.R. non consentono di dare prevalenza alla sostanza economica sulla forma giuridica, laddove nel par. 5.2.2. ha rilevato che “il censurato intervento normativo appare finalizzato a ricondurre il citato art. 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (ovverosia al gestum, rilevante secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate nella tariffa allegata al Testo Unico)”.

Inoltre, il giudice delle leggi nel par. 5.2.4. ha evidenziato che la tesi della Suprema Corte, sempre “sul piano costituzionale”, almeno a partire dall’introduzione della nuova norma antielusiva dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, “provocherebbe incoerenze nell’ordinamento” per il fatto che “consentirebbe all’A.F., da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente” e, dall’altro lato, “di svincolarsi da ogni riscontro di ‘indebiti’ vantaggi fiscali e di operazioni ‘prive di sostanza economica’”. Di conseguenza, la Corte costituzionale ha ritenuto che la tesi della Suprema Corte, oltre a non essere costituzionalmente necessitata e rispondente alla tipizzazione delle voci dell’imposta di registro, è anche incoerente sul piano costituzionale in quanto consentirebbe all’Agenzia delle entrate di contestare l’abuso del diritto, svincolandosi tanto dalla garanzia del contraddittorio preventivo, quanto dall’accertamento dei relativi requisiti.

LA GIURISPRUDENZA
Contestazioni di abuso del diritto
Il ragionamento operato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 158/2020 sottende il convincimento che le contestazioni formulate dall’Agenzia delle entrate sulla base del vecchio art. 20 del T.U.R., attribuendo prevalenza alla sostanza economica rispetto alla forma giuridica, mascherano in realtà contestazioni di abuso del diritto fiscale. Ed infatti l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente consente di contestare non solo le operazioni prive di sostanza economica, ma anche quelle dotate di una sostanza economica incoerente con la loro forma giuridica. Pertanto, la Corte costituzionale non sembra condividere la tesi della Cassazione secondo cui tali contestazioni non avrebbero potuto essere configurabili come contestazioni di abuso del diritto fiscale poiché l’abuso presupporrebbe sempre la mancanza di sostanza economica

Ma v’è di più. Il ragionamento del giudice delle leggi sottende l’ulteriore convincimento che le contestazioni formulate dall’Agenzia delle entrate sulla base del vecchio art. 20 del T.U.R., attribuendo prevalenza alla sostanza economica rispetto alla forma giuridica, mascherano in realtà contestazioni di abuso del diritto fiscale. Ed infatti l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente consente di contestare non solo le operazioni prive di sostanza economica, ma anche quelle dotate di una sostanza economica incoerente con la loro forma giuridica. Tant’è vero che la lett. a) del comma 2 di tale disposizione considera come “indici di mancanza di sostanza economica … la non coerenza della qualificazione [forma] delle singole operazioni con il fondamento giuridico [sostanza giuridica] del loro insieme” e, quindi, proprio la difformità della sostanza economica di un complesso di operazioni collegate rispetto alla forma giuridica di ciascuna di tali operazioni. Pertanto, la Corte costituzionale non sembra condividere la tesi della Cassazione secondo cui tali contestazioni non avrebbero potuto essere configurabili come contestazioni di abuso del diritto fiscale poiché l’abuso presupporrebbe sempre la mancanza di sostanza economica.

Del resto, la stessa Cassazione ha a suo tempo riconosciuto che anche la norma generale antielusiva ed il divieto di abuso del diritto sono vòlti a dar prevalenza alla sostanza economica rispetto alla forma giuridica. Ed infatti già nel caso Part Service, in cui era stato contestato a talune società di aver frazionato dei contratti di locazione finanziaria in una pluralità di contratti distinti, la Suprema Corte ha statuito che “il meccanismo dell’abuso del diritto costituisce, come la Corte di Giustizia ha sottolineato, proprio un superamento della forma giuridica in vista di cogliere l’esatta finalità economica di un negozio o di un complesso negoziale”(1). Pertanto, Essa ha ritenuto inopponibile all’A.F. in forza del divieto di abuso del diritto il “frazionamento di un’operazione in distinti contratti, il cui contenuto economico è di far ottenere ad un altro soggetto, ad un tempo stesso, l’utilizzazione di un bene, il procacciamento della provvista finanziaria necessaria e l’assicurazione contro i rischi di perdita o di deperimento economico del bene” e che quindi tali contratti siano riqualificabili come un unico contratto di locazione finanziaria. Comunque, anche in una recente sentenza si legge che “l’intento normativo sotteso alla littera legis dell’art. 37-bis è di far prevalere la sostanza sulla forma al fine di far concorrere alle spese pubbliche tutti i soggetti passivi d’imposta sulla base della reale capacità contributiva”(2).

Ma la presa di posizione della Corte costituzionale, secondo cui le contestazioni basate sulla prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica, se, da un lato, non possono essere fondate sull’art. 53 Cost. almeno per i tributi non armonizzati che identificano il presupposto d’imposta negli effetti giuridici dei negozi, dall’altro lato, si sostanziano in contestazioni di abuso del diritto fiscale, fa sorgere il dubbio che non possano essere fondate su tale disposizione nemmeno le contestazioni di abuso del diritto fiscale basate sulla prevalenza della sostanza sulla forma.

Infine, la Corte costituzionale ha statuito che la tesi della Cassazione secondo cui il vecchio art. 20 del T.U.R. imponeva di applicare il registro, privilegiando la sostanza economica degli atti precluderebbe “di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea)”. Di conseguenza, il giudice delle leggi ha ritenuto che, nel caso in cui l’imposta di registro sia applicata privilegiando la sostanza economica degli atti, si finirebbe con il colpire anche vantaggi fiscali che sarebbero pienamente legittimi, essendo prerogativa del contribuente scegliere fra più operazioni quella fiscalmente meno onerosa.

L’impatto del nuovo art. 20 del T.U.R. su operazioni già realizzate e da realizzare

La conferma della legittimità costituzionale del nuovo art. 20 T.U.R. consente di concludere che l’imposta di registro deve essere applicata sulla base degli effetti giuridici dei singoli atti presentati alla registrazione sia per il futuro, che per il passato. Ed infatti deve oramai ritenersi assodato che tale disposizione impone di prescindere dagli atti collegati e dagli elementi extratestuali non solo perché depongono in questo senso la sua formulazione letterale, la relazione illustrativa e l’evoluzione legislativa, ma anche perché lo hanno dato per acquisito tanto la Suprema Corte nel par. 2 dell’ordinanza di remissione, quanto la Corte costituzionale nel par. 5.2.2. dell’ordinanza di rigetto, entrambi sopra trascritti.

Né può obiettarsi che tale disposizione, nella parte in cui fa “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” e, quindi, anche quanto disposto dall’art. 53-bis del T.U.R., laddove estende l’esercizio dei poteri istruttori di cui all’art. 31 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 all’imposta di registro, intenderebbe far salva la facoltà di dare rilevanza anche agli elementi extratestuali, non solo perché tale disposizione non consente di esercitare tali poteri prescindendo dai vincoli previsti dal nuovo art. 20 del T.U.R. (3), ma anche perché, se così fosse, la sua riformulazione sarebbe inutiliter data.

Tuttavia tramite l’esercizio dei predetti poteri istruttori l’A.F. potrà provare che gli effetti giuridici di un atto sono diversi da quelli apparenti in quanto le parti abbiano concluso un accordo simulatorio (4) poiché tale accordo incide direttamente sugli effetti del predetto atto.

LA GIURISPRUDENZA
Contestazioni basate sulla prevalenza della sostanza sulla forma
La presa di posizione della Corte costituzionale, secondo cui le contestazioni basate sulla prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica, se, da un lato, non possono essere fondate sull’art. 53 Cost., almeno per i tributi non armonizzati che identificano il presupposto d’imposta negli effetti giuridici dei negozi, dall’altro lato, si sostanziano in contestazioni di abuso del diritto fiscale, fa sorgere il dubbio che non possano essere fondate su tale disposizione nemmeno le contestazioni di abuso del diritto fiscale basate sulla prevalenza della sostanza sulla forma.

Fermo restando quanto precede, sembra di poter escludere innanzitutto che i conferimenti di aziende seguiti dalla vendita di partecipazioni non totalitarie nelle società conferitarie siano riqualificabili come vendite di aziende soggette ad imposta di registro con aliquote proporzionali in forza del nuovo art. 20 del T.U.R. non solo perché altrimenti sarebbe violata la Direttiva UE sulla raccolta dei capitali (5), ma anche perché tali atti, qualora siano isolatamente considerati, non possono risultare produttivi degli effetti giuridici di una vendita d’azienda.

Del resto, la stessa Cassazione ha dato per scontato nell’ordinanza di remissione che, per decidere il caso oggetto del giudizio che concerneva il conferimento di tre rami d’azienda ad una società neocostituita da parte di tre società seguito dalla vendita delle partecipazioni da loro detenute, doveva “fare applicazione – appunto retroattiva – della norma in esame” poiché l’A.F. “ha posto a fondamento esclusivo” dell’avviso di liquidazione impugnato l’esito “della riqualificazione giuridica di un complesso di atti negoziali collegati ed asseritamente costituente un’operazione unitaria”.

Comunque, l’Agenzia delle entrate, nelle risposte alle istanze di interpello emesse dopo l’entrata in vigore del nuovo art. 20 del T.U.R., ha affermato che il conferimento di un’azienda in una società seguito dalla vendita della partecipazione nella società conferitaria, anche se la vendita della partecipazione sia stata già programmata, non risulta riqualificabile come una vendita d’azienda in quanto dà luogo ad una cessione indiretta d’azienda soggetta ad imposta di registro in misura fissa (6).

Conclusioni analoghe devono ritenersi valide anche per la scissione di un’azienda e la vendita della partecipazione non totalitaria nella beneficiaria o nella scissa in quanto anche tali operazioni, qualora siano autonomamente considerate, non sono produttive degli effetti non solo giuridici, ma neppure economici di una vendita d’azienda. D’altronde, l’Agenzia delle entrate, nelle risposte ad istanze di interpello emesse dopo l’entrata in vigore del nuovo art. 20 del T.U.R. (7), ha ritenuto che non sia riqualificabile come una vendita d’azienda la scissione di un’azienda e la vendita della partecipazione nella beneficiaria o scissa, anche se la vendita della partecipazione sia stata già programmata, poiché tale operazione dà luogo ad una cessione indiretta dell’azienda che è soggetta ad imposta di registro in misura fissa (8).

Discorso più articolato deve essere svolto per quanto attiene alla riqualificazione come vendita d’azienda soggetta ad imposta di registro con le aliquote proporzionali della vendita di una partecipazione totalitaria preceduta o meno da un conferimento o scissione d’azienda.

SOLUZIONI INTERPRETATIVE
Conferimenti di aziende seguiti da vendita di partecipazioni
Sembra di poter escludere che i conferimenti di aziende seguiti dalla vendita di partecipazioni non totalitarie nelle società conferitarie siano riqualificabili come vendite di aziende soggette ad imposta di registro con aliquote proporzionali in forza del nuovo art. 20 del T.U.R. non solo perché altrimenti sarebbe violata la Direttiva UE sulla raccolta dei capitali, ma anche perché tali atti, qualora siano isolatamente considerati, non possono risultare produttivi degli effetti giuridici di una vendita d’azienda.

La Cassazione ha sostenuto che la vendita di una partecipazione totalitaria, comportando il trasferimento del potere di disposizione dell’azienda della società partecipata a favore dei loro acquirenti, sarebbe come tale riqualificabile come una vendita d’azienda. Ed infatti, a suo dire, “la circostanza che debba aversi riguardo ad un unico atto consente di apprezzarne con più immediata evidenza, rispetto al caso in cui debba individuarsi la causa unitaria concreta di più negozi tra loro collegati, il risultato giuridico finale oggettivamente prodotto dall’atto sottoposto a registrazione, e ciò senza neppure che si ponga la (diversa) questione della possibilità o meno di ricorrere ad elementi extratestuali” (9). Pertanto tale riqualificazione, non trovando fondamento nella considerazione non solo di atti collegati, ma neppure di elementi extratestuali, potrebbe a prima vista non essere preclusa dalla nuova formulazione dell’ art. 20 del T.U.R.

Senonché, a ben vedere, la riqualificazione della vendita di una partecipazione totalitaria come una vendita d’azienda, oltre a non essere già legittimata dalla vecchia formulazione dell’art. 20 del T.U.R., laddove imponeva di applicare l’imposta di registro “secondo gli effetti giuridici” dell’atto presentato alla registrazione (10) proprio per il fatto che non ne produce gli effetti giuridici (11), non può a maggior ragione esser legittimata dalla nuova formulazione di tale disposizione in quanto essa impone di applicare tale imposta “secondo gli effetti giuridici” del predetto atto, non solo prescindendo dagli elementi extratestuali e dagli atti collegati, ma anche avendo esclusivo riguardo agli “elementi desumibili dall’atto medesimo”. Pertanto, dovendo essere considerati soltanto gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, così come da esso desumibili, non può assumere rilevanza lo scopo economico perseguito dalle parti, quand’anche fosse quello di acquistare in via indiretta l’azienda della società compravenduta.

SOLUZIONI INTERPRETATIVE
Riqualificazione come vendita d’azienda della vendita di partecipazione totalitaria
La riqualificazione della vendita di una partecipazione totalitaria come una vendita d’azienda, oltre a non essere già legittimata dalla vecchia formulazione dell’art. 20 del T.U.R., laddove imponeva di applicare l’imposta di registro “secondo gli effetti giuridici” dell’atto presentato alla registrazione proprio per il fatto che non ne produce gli effetti giuridici, non può a maggior ragione esser legittimata dalla nuova formulazione di tale disposizione in quanto essa impone di applicare tale imposta “secondo gli effetti giuridici” del predetto atto, non solo prescindendo dagli elementi extratestuali e dagli atti collegati, ma anche avendo esclusivo riguardo agli “elementi desumibili dall’atto medesimo”. Pertanto, dovendo essere considerati soltanto gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, così come da esso desumibili, non può assumere rilevanza lo scopo economico perseguito dalle parti, quand’anche fosse quello di acquistare in via indiretta l’azienda della società compravenduta

In questo senso si è chiaramente espressa la relazione illustrativa del nuovo art. 20 T.U.R., laddove ha precisato che tale disposizione è volta a stabilire che l’imposta di registro debba essere applicata prescindendo non solo dagli elementi extratestuali e atti collegati ma anche dagli “interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione di azienda la cessione totalitaria di quote)”.

La conclusione così formulata trova del resto conferma anche nell’interpretazione che del nuovo art. 20 del T.U.R. ha fornito la Corte costituzionale. Come infatti si è visto, il giudice delle leggi ha statuito nel par. 5.2.2 della sentenza che tale disposizione impone di applicare l’imposta di registro sulla base degli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione. In ogni caso, l’Agenzia delle entrate ha già escluso che la vendita di una partecipazione totalitaria possa dar luogo ad una vendita d’azienda, anche se sia preceduta da un conferimento (12) o da una scissione d’azienda (13), comportando una cessione solo indiretta dell’azienda, e nello stesso senso si è espressa l’Assonime (14).

In conclusione, la vendita di una partecipazione totalitaria, quand’anche sia preceduta da un conferimento o una scissione d’azienda, non può essere riqualificabile come una vendita d’azienda in forza del nuovo art. 20 T.U.R.

Infine, sembra pure da escludere che in forza del nuovo art. 20 del T.U.R. le vendite frazionate di beni o insiemi di beni che costituiscano un complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa solo congiuntamente considerati continuino ad essere riqualificabili come vendite d’azienda in quanto in tal caso, qualora siano considerate autonomamente, non potrebbero dar luogo ad una vendita d’azienda.

Tuttavia, in tal caso, l’Agenzia delle entrate dovrebbe rimanere legittimata a contestare che le parti abbiano concluso una vendita d’azienda allorché fornisca la prova che esse abbiano convenuto di dissimulare un tale negozio dietro l’apparenza di una vendita di beni.

La possibilità di contestare le operazioni realizzate e da realizzare in forza dell’art. 10-bis dello Statuto

Rimane a questo punto da capire se le operazioni prima individuate, già realizzate o da realizzare, pur non essendo più riqualificabili come vendite di aziende sulla base del nuovo art. 20 del T.U.R., possano essere riqualificate come tali in forza dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente.

Come si è visto la Corte costituzionale ha lasciato intendere che le contestazioni con cui l’Agenzia delle entrate ha riqualificato il conferimento o la scissione d’azienda seguito dalla vendita della partecipazione o la vendita di una partecipazione totalitaria come vendita d’azienda sono configurabili come contestazioni di abuso del diritto fiscale ai sensi dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente.

Senonché l’Agenzia delle entrate ha escluso che il conferimento e la scissione d’azienda seguito dalla vendita delle partecipazioni nelle società conferitarie o beneficiarie diano luogo ad un abuso del diritto fiscale, in quanto non consentono di ottenere un vantaggio fiscale qualificabile come indebito, anche nel caso in cui la vendita delle partecipazioni sia stata già programmata (15), poiché “il comportamento di quei contribuenti che, anche motivati dalla finalità di minimizzare il loro carico impositivo, scelgano di trasferire l’azienda mediante la cessione delle partecipazioni, previo loro conferimento in un apposito veicolo, non può essere ritenuto abusivo, difettando proprio il contrasto con la ratio di disposizioni o principi desumibili dall’imposta di registro” (16).

Del resto, in questo senso si era già espressa la relazione illustrativa dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, laddove aveva ritenuto riconducibile tra le scelte di pari dignità che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento mette a disposizione del contribuente anche la “scelta tra cedere aziende o cedere partecipazioni sociali”.

Per contro, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto che i conferimenti d’azienda seguiti dalla vendita delle partecipazioni nelle società conferitarie possano dar luogo ad un abuso del diritto fiscale nel caso in cui dopo la vendita di tali partecipazioni la società acquirente fonda la società conferitaria, in quanto, in tal caso, risulterebbe “chiara la volontà di acquisire direttamente un’azienda, risultando il percorso tortuoso meramente strumentale al predetto obbiettivo perseguito” (17), sebbene tale volontà sia da escludere allorché la fusione non sia stata programmata fin dall’origine (18).

Infine, l’Agenzia delle entrate è parsa orientata a ritenere che le vendite frazionate di beni possano continuare ad essere contestate mediante il ricorso all’abuso del diritto fiscale per il fatto che “la circostanza che le componenti del complesso aziendale … risultino essere state trasferite tutte” al medesimo acquirente “porta a ravvisare una complessiva cessione di azienda, seppur realizzata mediante più atti contestuali aventi ad oggetto, separatamente immobili e partecipazioni”, dando luogo ad un “vantaggio fiscale che assume una connotazione ‘indebita’” (19), essendo la cessione degli immobili soggetta ad imposta di registro con aliquota proporzionale.

Comunque, per quanto attiene alle contestazioni formulate sulla base del vecchio art. 20 del T.U.R. mediante atti impositivi già notificati prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, il ricorso all’art. 10-bis dello Statuto del contribuente dovrebbe essere precluso non solo dalla mancata instaurazione del contraddittorio preventivo sulla sussistenza di un abuso del diritto fiscale, ma anche dal divieto di contestazione d’ufficio di tale abuso sancito dal comma 9 di tale disposizione. Senonché la Cassazione in talune sentenze ha sostenuto che tale divieto sarebbe operante soltanto per le operazioni contestate con atti impositivi notificati a partire dal primo giorno del mese successivo a quello dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 128/2015 e, quindi, dal 1° ottobre 2015, in quanto il comma 5 dell’art. 1 di tale D.Lgs. recita che “le disposizioni dell’art. 10-bis … hanno efficacia a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto e si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo” (20). Pertanto, tale divieto non opererebbe anche per le operazioni contestate con atti impositivi notificati prima della predetta data.

Tuttavia questa presa di posizione desta perplessità in quanto tale disposizione, sancendo la regola generale di decorrenza secondo cui le disposizioni dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente hanno efficacia a decorrere dal 1° ottobre 2015, sembra volta ad attribuire efficacia al divieto di contestazione d’ufficio dell’abuso del diritto fin da tale data. Pertanto tale divieto, avendo natura processuale, secondo il principio del tempus regit actum, dovrebbe operare per tutti i giudizi in corso a tale data in cui non sia stata già formulata tale contestazione.

Né sembra derogare la regola generale di decorrenza così individuata la seconda regola recata dal comma 5 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 128/2015, secondo cui le disposizioni dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente “si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo”, per il fatto che tale regola è formulata nel senso di estendere e non di restringere la portata di tali disposizioni, rendendole applicabili anche ad operazioni a cui non sarebbero altrimenti applicabili, essendo state realizzate prima del 1° ottobre 2015 (21).

Del resto, per le operazioni contestate con atti impositivi notificati prima del 1° ottobre 2015, rimane da capire se possa essere eccepito d’ufficio l’abuso del diritto fiscale sulla base dell’assunto che i conferimenti e le scissioni di aziende seguiti dalla vendita delle partecipazioni nelle società beneficiarie abbiano la sostanza economica di vendite di aziende, in quanto la conclusione della Corte costituzionale secondo cui le contestazioni basate sul principio di prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica non possono essere fondate sull’art. 53 Cost. per i tributi non armonizzati che identificano il presupposto d’imposta negli effetti giuridici dei negozi fa sorgere il dubbio che non possano esserlo nemmeno le contestazioni di abuso del diritto fiscale basate sul predetto principio, cosicché tale eccezione dovrebbe essere formulata in forza del previgente art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. Senonché tale disposizione è stata ritenuta non applicabile all’imposta di registro (22). Pertanto, per le operazioni così individuate, sembra possa essere messa in discussione l’esistenza di una base per la formulazione di una contestazione di abuso del diritto fiscale.

Note:

(1) Così Cass., 17 ottobre 2008, n. 25374

(2) Così Cass., 28 maggio 2020, n. 10121.

(3) M. Beghin, “L’interpretazione dell’atto ai fini dell’imposta di registro: un esercizio a geometria variabile”, in Corr. Trib., n. 11/2020, pag. 952.

(4) M. Beghin, op. cit., pag. 952

(5) Cfr. G. Escalar, “Compatibilità comunitaria delle imposte indirette sul conferimento di azienda e successiva vendita di partecipazione”, in Corr. Trib., n. 29/2016, pag. 2268.

(6) Risposte n. 138/2019, n. 196/2019 e n. 371/2020.

(7) Tuttavia l’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 97/E/2017, aveva sostenuto che avrebbe potuto riqualificare l’operazione “alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità”.

(8) Risposta n. 13/2019, nello stesso senso risposta n. 956-1469/2018/2019

(9) Così Cass. n. 881/2019.

(10) Cfr. G. Escalar, “Il nuovo art. 20 del T.U.R. e l’indebita riqualificazione delle cessioni di partecipazioni in cessioni di azienda”, in Corr. Trib., n. 10/2018, pag. 731.

(11) Secondo la Cassazione civile, “gli istituti dell’autonomia patrimoniale e della distinta personalità giuridica della società di capitali rispetto ai soci comportano la esclusione della riferibilità a costoro del patrimonio, anche nella ipotesi in cui uno dei soci possa essere considerato socio di larga maggioranza, e tali conclusioni si impongono ancor più quando manchi la dimostrazione della sussistenza di comportamenti suscettibili di essere qualificati come abuso della personalità giuridica” (Cass. 5 aprile 2016, n. 6542; nello stesso senso Id., 16 maggio 2007, n. 11258 e Id., 25 gennaio 2000, n. 804).

(12) Risposta n. 196/2019.

(13) Risposta n. 13/2019 e n. 956-1469/2018/2019.

(14) Circolare n. 3/2018.

(15) Risposte n. 13/2019, n. 956-1469/2018/2019, n. 138/2019 e n. 196/2019.

(16) Risposta n. 13/2019.

(17) Risposta n. 13/2019; nello stesso senso la risposta n. 138/2019.

(18) E. Della Valle, “Il collegamento negoziale nell’imposta di registro: un capitolo chiuso?”, in Il Fisco, 2020, pag. 3211.

(19) Risposta n. 469/2019.

(20) In questo senso Cass. n. 31816/2019; Cass. n. 33673/2019; Cass. n. 9898/2020; Cass. n. 6053/2020. (21) Comunque, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 132/2015, ha statuito che il “rilievo d’ufficio del giudice” dell’elusione “è in ogni caso subordinato all’avvenuta instaurazione del previo contraddittorio tra le parti, a pena di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 101, secondo comma, c.p.c. norma applicabile anche al processo tributario”.

(22) Per tutte, Cass. 11 maggio 2017, n. 11667

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