Corr. Trib. 16/2016, p. 1215 e segg.
La statuizione di non punibilità dell’elusione fiscale contenuta nel nuovo art. 10-bis dello Statuto del contribuente comporta l’irrilevanza penale, non solo delle contestazioni di elusione, ma anche di quelle contestazioni che, pur non essendo presentate come tali, si concretino nel disconoscimento degli effetti giuridici di atti che presentino una forma giuridica rispondente alla fattispecie legale, sulla base dell’assunto che tali atti siano privi della relativa sostanza economica, avendo per scopo essenziale il conseguimento di un risparmio d’imposta indebito, quali talune contestazioni di nullità, antieconomicità, esterovestizione, interposizione, ecc.
L’art. 8 della Legge 11 marzo 2014, n. 23, aveva delegato il Governo a provvedere, fra l’altro, “alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti… dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa”, nonché… l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie”.
In attuazione dei principi direttivi così individuati, l’art. 4 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 ha innanzitutto sottoposto a revisione il delitto di infedele dichiarazione previsto dall’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (“D.Lgs. n. 74”). In particolare, tale disposizione, oltre ad aver sostituito la locuzione di elementi passivi fittizi con quella di elementi passivi inesistenti, ha elevato la soglia di punibilità commisurata all’imposta evasa, da 50.000 a 150.000 euro, nonché quella commisurata all’imponibile, da 2 a 3 milioni di euro, ed ha introdotto nel nuovo comma 1-bis la statuizione secondo cui non si tiene conto 1) “della non corretta classificazione” 2) “della valutazione di elementi attivi e passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali”; 3) “della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza”; 4) “della non inerenza”; 5) “della non deducibilità di elementi passivi reali”.
Inoltre, il comma 13 del nuovo art. 10-bis introdotto nella Legge 27 luglio 2000, n. 212 (“Legge n. 212”) dal comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, ha definitivamente confermato che l’elusione o l’abuso fiscale è tout court penalmente irrilevante, stabilendo che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”, pur restando “ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”. Pertanto, non possono più reputarsi penalmente sanzionabili le “operazioni” che siano “prive di sostanza economica” in quanto siano inidonee “a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali” e, “pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”[1] e cioè “benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”[2], sempreché non diano luogo alla “violazione di specifiche disposizioni tributarie”. Escluso quindi che siano penalmente rilevanti le contestazioni di elusione fiscale, rimane a questo punto da capire se non siano penalmente irrilevanti anche altre contestazioni, che pur non essendo formalmente configurate come contestazioni di elusione fiscale, siano tali nella sostanza.
La nullità dei negozi per frode alla legge tributaria
L’Amministrazione finanziaria in passato ha spesso contestato l’inopponibilità degli effetti dei contratti conclusi dal contribuente al solo scopo di conseguire un risparmio d’imposta, sulla base dell’assunto che tali contratti sarebbero nulli sul piano civilistico.
Tali contestazioni trovano fondamento nell’orientamento elaborato dalla Cassazione in relazione a periodi d’imposta precedenti all’entrata in vigore dell’art. 37-bisdel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (“D.P.R. n. 600”) e prima della teorizzazione dell’abuso del diritto fiscale secondo cui i negozi che abbiano come scopo essenziale il conseguimento di un vantaggio fiscale e non garantiscano alcun vantaggio economico sono nulli per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1344 c.c., costituendo il mezzo per eludere norme fiscali imperative. In particolare, la Suprema Corte ha reputato nulli i contratti di acquisto di azioni cum dividendo e la loro retrocessione ex dividendo nel caso in cui tali operazioni avevano per scopo essenziale il conseguimento del credito d’imposta sui dividendi[3].
Sennonché l’art. 10 della Legge n. 212, prevedendo che “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”, dovrebbe a fortiori consentire di escludere che l’elusione di disposizioni tributarie possa essere causa di nullità del contratto. Inoltre, il comma 4 dell’art. 14 della Legge 24 dicembre 1993, n. 537, stabilendo che “nelle categorie di reddito … devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale” e che “i relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”, rende applicabile ai componenti di reddito derivanti da atti illeciti il medesimo regime fiscale che sarebbe applicabile ai componenti di reddito derivanti dai corrispondenti atti leciti in quanto i tributi, colpendo le manifestazioni di capacità economica, attribuiscono rilevanza agli effetti dei negozi indipendentemente dalla loro validità giuridica.
Comunque, prima l’art. 37-bis e ora l’art. 10-bis, considerando inopponibili all’Amministrazione finanziaria i negozi che abbiano come scopo essenziale il conseguimento di un risparmio fiscale indebito e siano privi di sostanza economica, confermano a contrario che i negozi utilizzati come mezzo per eludere norme fiscali imperative non possono reputarsi nulli ai sensi dell’art. 1344 c.c. in quanto altrimenti tali disposizioni non avrebbero dovuto considerarli ad essa inopponibili perché sarebbero stati già improduttivi di effetti.
D’altro canto, è orientamento consolidato della Corte di Giustizia in materia IVA che, poiché “il principio della neutralità fiscale non consente una distinzione generale fra le operazioni lecite e le operazioni illecite” e quindi “la qualificazione di un comportamento come riprovevole non comporta, di per sé, una deroga all’imposizione”[4], il diritto alla detrazione dell’IVA assolta in relazione a cessioni di beni a titolo oneroso spetta al cessionario, anche se i negozi che hanno dato luogo a tali cessioni sono affetti da nullità assoluta per illiceità della causa[5].
Peraltro, la nullità dei negozi per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1344 c.c., ammesso e non concesso che assumesse rilevanza sul piano fiscale, non dovrebbe più assumere rilevanza sul piano penale in virtù della statuizione del comma 1-bis dell’art. 4 del D.Lgs. n. 74, che impone di non tener conto della “non deducibilità di componenti negativi reali”. I componenti negativi di reddito derivanti da negozi nulli non possono che ritenersi reali in quanto tali negozi, nel caso in cui siano regolarmente eseguiti, comportano gli effetti economici dei corrispondenti negozi validi. In questo senso merita di essere rilevato che la Cassazione penale è dell’avviso che, ai sensi della lett. a) dell’art. 1 del D.Lgs. n. 74, per “operazioni non realmente effettuate” devono intendersi le operazioni che producano effetti economici diversi da quelle fatturate, laddove ha rilevato che “si deve invece parlare di operazione inesistente anche quando un’operazione giuridica vi sia, ma debba intendersi non coincidente, sul piano economico, da quella documentata”[6].
Comunque, a ben vedere, le contestazioni di nullità dei negozi per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1344 c.c. si fondano sull’allegazione dei presupposti costitutivi dell’abuso del diritto fiscale in quanto presuppongono che tali negozi siano usati come il mezzo per eludere una norma imperativa fiscale, nel senso che abbiano come scopo essenziale il conseguimento di un risparmio d’imposta da essa vietato. Pertanto, tali contestazioni non possono assumere rilevanza penale in virtù della statuizione di irrilevanza penale dell’abuso del diritto fiscale sancita dall’art. 10-bis. Tant’è vero che la stessa Cassazione ha statuito che la conclusione di un contratto “essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale, quand’anche comportasse la nullità di tale contratto e la sua inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, secondo la tesi sostenuta dai giudici di merito, non potrebbe giammai integrare una condotta penalmente rilevante in quanto il nuovo art. 10-bis aggiunto alla Legge 27 luglio 2000, 212… esclude espressamente che le operazioni che siano prive di sostanza economica e realizzino vantaggi fiscali indebiti possano dar luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”[7].
L’antieconomicità della condotta del contribuente
L’Amministrazione finanziaria ha fatto talora ricorso anche al c.d. principio di antieconomicità, e cioè al principio di sindacabilità delle scelte dell’imprenditore non rispondenti ai canoni dell’economia, non solo per contestare operazioni inesistenti, ma anche per disconoscere la deduzione di costi che non sarebbero stati altrimenti sostenuti, nonché la detrazione della IVA relativa, indipendentemente dalla loro inerenza all’esercizio d’impresa, ovvero per recuperare a tassazione proventi che sarebbero stati altrimenti conseguiti[8].
Tali contestazioni trovano fondamento nell’orientamento elaborato dalla Cassazione nel 2000 in relazione a periodi d’imposta antecedenti all’entrata in vigore dell’art. 37-bis e prima della teorizzazione dell’abuso del diritto fiscale, secondo cui l’Amministrazione finanziaria “ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio di impresa”[9].
Le contestazioni così formulate suscitano gravi perplessità in quanto il T.U.I.R. aveva inteso ammettere la verifica di congruità dei proventi e dei costi soltanto in casi tassativamente indicati, quali principalmente le operazioni infragruppo fra società residenti e non residenti, le operazioni di assegnazione di beni ai soci o di destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio dell’impresa.
Peraltro le contestazioni di antieconomicità di operazioni realmente esistenti possono ridondare in contestazioni di abuso del diritto fiscale, laddove tali operazioni siano considerate inopponibili all’Amministrazione finanziaria per aver comportato il sostenimento di costi che non sarebbero stati sostenuti ovvero il mancato conseguimento di proventi che sarebbero stati conseguiti in quanto la deduzione di tali costi e la mancata tassazione dei predetti proventi sottende il realizzo di un risparmio d’imposta indebito in mancanza di sostanza economica. È significativo rilevare a questo riguardo che la Cassazione ha riconosciuto che “potrà ancora accadere che l’antieconomicità costituisca indizio di abuso del diritto che, com’è noto, presuppone un uso ‘artificioso’ di una forma giuridica e cioè l’uso concreto di essa non per l’affare per il quale essa è tipicamente prevista, ma per uno scopo diverso, univocamente ed esclusivamente rivolto a perseguire un indebito risparmio fiscale”[10] e che “l’autonomia dell’impresa non incontra fiscalmente altro limite che quello dell’abuso del diritto”[11].
Ebbene le contestazioni di antieconomicità dovrebbero essere considerate penalmente irrilevanti, laddove abbiano ad oggetto elementi attivi o passivi reali, in virtù delle statuizioni del comma 1-bis dell’art. 4 del D.Lgs. n. 74, che impongono di non tenere conto non solo della valutazione di elementi oggettivamente esistenti, ma anche della “non inerenza”, in quanto per tale sembra doversi intendere un più generale concetto di inerenza dei componenti di reddito all’esercizio dell’impresa in mancanza di un espresso richiamo del comma 5 dell’art. 109 del T.U.I.R. Comunque, anche a voler prescindere da tali considerazioni, le predette contestazioni non possono che risultare penalmente irrilevanti, laddove sottendano una contestazione di abuso del diritto fiscale, in virtù della statuizione d’irrilevanza penale delle condotte abusive sancita dal comma 13 dell’art. 10-bis.
L’interposizione reale di persone nel conseguimento di redditi
L’Amministrazione finanziaria, soprattutto negli ultimi anni, ha ritenuto di essere legittimata ad imputare i redditi conseguiti sulla base di un valido titolo giuridico da società, anche residenti, regolarmente costituite e gestite da amministratori dotati di poteri ad altri soggetti, sulla base dell’assunto che tali società sarebbero interposte in quanto scatole vuote prive di una propria organizzazione che non esercitano un’attività economica.
Tali contestazioni trovano fondamento nell’orientamento della Cassazione secondo cui il comma 3 dell’art. 37 del D.P.R. n. 600 consentirebbe di imputare al soggetto interponente i redditi conseguiti dal soggetto interposto, anche se l’interposizione sia reale e non fittizia. In particolare, la Suprema Corte ha statuito che “il fenomeno della simulazione relativa (nell’ambito del quale può ricomprendersi la interposizione personale fittizia) non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo mediante operazioni effettive e reali”[12].
Sennonché la normativa civilistica e quella fiscale non sembrano considerare come presupposto per l’esistenza giuridica di una società il possesso di un’organizzazione di beni e persone e l’esercizio di un’attività economica. In particolare, l’art. 12 della Direttiva CE 2009/101/CE del 16 settembre 2009 stabilisce, non solo che la nullità deve essere dichiarata in giudizio, ma anche che le società non sono soggette ad alcuna causa di inesistenza, nullità assoluta, nullità relativa od annullabilità al di fuori dei casi previsti per la violazione dei requisiti relativi alla loro costituzione. Inoltre, l’art. 81 del T.U.I.R. sancisce la presunzione assoluta secondo cui le società residenti che abbiano per oggetto principale l’esercizio di attività commerciale sono titolari di redditi di impresa. Infine, l’art. 30 della Legge 23 dicembre 1994, n. 724, imponendo alle società commerciali residenti che siano qualificabili come non operative per essere titolari di redditi inferiori a quelli derivanti dall’applicazione dei coefficienti ivi stabiliti di dichiarare un reddito d’impresa minimo, non solo non considera tali società come interposte, imputando i redditi da loro conseguiti ai soci, ma impone loro di corrispondere le imposte su un reddito presuntivo, anche se non svolgano alcuna attività.
Ma v’è di più. Lo stesso legislatore è orientato ad escludere che il comma 3 dell’art. 37 risulti operante anche nei casi di interposizione reale giacché il comma 7 dell’art. 7 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, c.d. Decreto “contenzioso tributario” (“D.Lgs. n. 156”), per la verifica della sussistenza dei relativi presupposti di applicabilità, ha ammesso la presentazione del solo interpello ordinario e non anche di quello antiabuso, proprio sulla base dell’assunto che, secondo quanto è precisato nella relativa relazione illustrativa (pag. 16), il suo ambito di applicazione è circoscritto alla sola “interposizione fittizia”[13].
Peraltro, al di là delle esposte considerazioni, l’imputazione di redditi di cui sia titolare una società che soddisfi tutti i requisiti di legge ad altri soggetti sulla base dell’assunto che tale società sarebbe interposta in quanto priva di sostanza economica ridonda, in realtà, in una contestazione di abuso del diritto fiscale in quanto si traduce in un’eccezione di abuso della forma societaria.
Tant’è che l’Agenzia delle entrate, nella circolare n. 32/E/2011, ha riconosciuto che le condotte di interposizione reale di società comunitarie nell’incasso di dividendi per fruire della ritenuta ridotta dell’1,375% danno luogo ad un abuso del diritto fiscale. Ed infatti l’Agenzia, nella predetta circolare, ha sostenuto che danno luogo “ad ipotesi di illecito commesso dal contribuente, nella forma dell’abuso di forme giuridiche” tanto “i fenomeni di interposizione reale realizzati… attraverso ‘insediamenti’ (‘società conduit’)” che si configurano “nel caso in cui lo stabilimento in uno Stato UE della società titolare della partecipazione nella società italiana sia connotato dall’assenza di una effettiva attività e di una reale struttura”, quanto quelli “attraverso ‘transazioni’ (‘operazioni conduit’)”, che si configurano “tramite operazioni di trasferimento temporaneo consistenti nell’acquisto delle azioni cum cedola e nella successiva retrocessione delle medesime azioni ex cedola e, esplicitamente o implicitamente, dei relativi frutti (manufactured dividend) a vantaggio di una identificata controparte non legittimata a godere del trattamento fiscale dei dividendi intracomunitari”.
Ed ancora, la Cassazione ha sostenuto, non solo che il comma 3 dell’art. 37 “ha evidenti finalità antielusive – nel senso che mira ad impedire che, attraverso operazioni commerciali compiute mediante negozi giuridici conformi all’ordinamento giuridico, si realizzi lo scopo di sottrarre alla corretta tassazione, in tutto od in parte, il reddito prodotto ed imputabile al medesimo soggetto giuridico… essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante (perché non sorretto da valutazioni economiche diverse dal profilo fiscale) di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale proprio dell’operazione che costituisce il presupposto d’imposta…”, ma anche che il “principio antielusivo accolto” da tale disposizione “non permette la divergenza fra il possessore reale del reddito e quello apparente, ancorché essa derivi dall’interposizione di un terzo, quale espressione di una regola generale, desumibile dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria e sotteso all’art. 53 Cost., laddove menziona la capacità contributiva e la progressività dell’imposizione”[14]. Di conseguenza, le contestazioni di interposizione reale di società nel conseguimento di proventi imputabili ad altri soggetti, postulando l’integrazione dei presupposti dell’abuso del diritto fiscale, sono da ritenere penalmente irrilevanti ai sensi del comma 13 dell’art. 10-bis.
L’esterovestizione di società
L’Amministrazione finanziaria ha spesso contestato che le società con sede legale in uno Stato estero, anche se dispongano di un consiglio di amministrazione che sia prevalentemente composto da soggetti non residenti e assuma all’estero le sue delibere, abbiano in realtà stabilito la sede dell’amministrazione in Italia e siano ivi residenti fiscalmente per il semplice fatto che gli impulsi decisionali siano assunti nel territorio dello Stato.
Le contestazioni così formulate risultano chiaramente infondate. È orientamento della Cassazione tributaria che la sede dell’amministrazione, “in quanto contrapposta alla ‘sede legale’, deve ritenersi coincidente con quella di ‘sede effettiva’ (di matrice civilistica), intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli Uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (ex aliis, Cass. nn. 3604/1984, 5359/1988, 497/1997, 7037/2004, 6021/2009)”[15]. Inoltre, la Cassazione penale ha di recente statuito che “identificare tout court la sede amministrativa della società controllata con il luogo nel quale si assumono le decisioni strategiche o dal quale partono gli impulsi decisionali può in questi casi comportare conseguenze aberranti ove esso dovesse identificarsi con la sede della società controllante, in evidente contrasto con le ragioni stesse della politica del gruppo e le esigenze sottese al suo controllo”. Ed infatti, la sede dell’amministrazione di società deve essere identificata “… nel centro effettivo di direzione e di svolgimento della sua attività, ove cioè risiedono gli amministratori, sia convocata e riunita l’assemblea sociale, si trovino coloro che hanno il potere di rappresentare la società, il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente e nel quale hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti”[16]. Pertanto, la contestazione di fittizietà della residenza fiscale di società che abbiano stabilito all’estero la sede dell’amministrazione, e cioè il luogo di assunzione delle decisioni degli organi sociali, sulla base dell’assunto che gli impulsi decisionali provengono dall’Italia, ridonda in una contestazione di abuso del diritto fiscale in quanto comporta l’allegazione di non rispondenza della sede dell’amministrazione sostanziale a quella formale. Non a caso la Cassazione tributaria ha sostenuto che “per esterovestizione… si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale” e che “si tratta di un tipico fenomeno di abuso del diritto”[17], mentre la Cassazione penale ha affermato di condividere tale orientamento[18]. Di conseguenza, le contestazioni di esterovestizione di società che abbiano soddisfatto i presupposti formali per il radicamento della loro residenza fiscale all’estero, ridondando in contestazioni di abuso del diritto fiscale, devono ritenersi penalmente irrilevanti ai sensi del comma 13 dell’art. 10-bis.
L’inosservanza di norme antielusive specifiche
L’Amministrazione finanziaria ha sempre contestato come condotte di evasione l’inosservanza di norme antielusive specifiche, e cioè di norme che escludono la spettanza di regimi di favore al ricorrere di specifici indici, quali ad esempio il divieto di riporto delle perdite fiscali nel caso di fusioni di c.d. bare fiscali sancito dal comma 7 dell’art. 172 del T.U.I.R. Tali norme sono state tradizionalmente considerate come precettive dal previgente comma 8 dell’art. 37-bis, posto che tale disposizione consentiva di disapplicarle soltanto dietro risposta positiva all’istanza di interpello[19].
Sennonché il comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 156, stabilendo che “il contribuente interpella l’Amministrazione finanziaria per la disapplicazione di norme tributarie” antielusive specifiche e che “nei casi in cui non sia stata resa risposta favorevole, resta comunque ferma la possibilità per il contribuente di fornire la dimostrazione di cui al periodo precedente anche ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa”, sembra aver riconosciuto la loro natura procedimentale, quantomeno nel caso in cui sia stata presentata istanza di interpello. Con la conseguenza che tali norme possono ora fondare solo una presunzione relativa della sussistenza dei presupposti dell’abuso del diritto fiscale, che il contribuente può superare dimostrando in giudizio l’insussistenza di tali presupposti.
Il riconoscimento della natura procedimentale delle norme antielusive specifiche dovrebbe ritenersi esteso anche ai casi di mancata presentazione dell’istanza di interpello. Il legislatore delegato, nella relazione illustrativa del comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 156, ha infatti precisato che “la presentazione dell’istanza di interpello ovvero la mancata presentazione non pregiudicano, in alcun caso, la possibilità per il contribuente di fornire la dimostrazione della spettanza della disapplicazione anche nelle successive fasi dell’accertamento amministrativo e del contenzioso”. Del resto, la Cassazione già prima dell’introduzione della predetta disposizione, affrontando la questione relativa all’obbligatorietà della presentazione dell’istanza di interpello disapplicativo della disciplina delle società di comodo, aveva affermato, in via più generale, che “la procedura di interpello di cui al D.P.R. n. 600/1973, art. 37-bis, comma 8,… non costituisce una via obbligata per il superamento della presunzione posta a carico del contribuente stesso dalle disposizioni antielusive” e che “quindi al contribuente è sempre consentito fornire in giudizio la prova delle condizioni che consentono di superare la presunzione posta dalla legge a suo danno”[20].
Il riconoscimento della natura procedimentale delle norme antielusive specifiche sembra comportare l’irrilevanza penale delle contestazioni fondate sulla loro inosservanza in quanto la condanna del contribuente per il delitto di infedele dichiarazione richiederebbe la prova da parte dell’accusa della sussistenza dei presupposti dell’abuso del diritto fiscale. È infatti orientamento della Cassazione penale che “le presunzioni tributarie, seppure possano dar luogo ad una notizia di reato, non possono, poi, assumere di per sé valore di prova nel giudizio penale, nel quale vengono meno l’inversione dell’onere della prova e le limitazioni alla prova poste dalla legge tributaria”[21] e che il giudice penale può “avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione però che detti elementi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori” che, “per assurgere a dignità di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti”[22].
Tuttavia di avviso contrario è parso il Governo a pag. 11 della relazione illustrativa dell’art. 10-bis, laddove ha rilevato che “resta… impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali… nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad esempio, negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe ben integrare taluno dei delitti in dichiarazione)”, ma tale precisazione non sembra tenere conto della nuova disciplina degli interpelli disapplicativi introdotta dal D.Lgs. n. 156, essendo tale Decreto stato approvato solo successivamente al D.Lgs. n. 128/2015. Pertanto, sembrano esistere validi argomenti per affermare che anche le contestazioni dell’inosservanza di norme antielusive specifiche non assumano rilevanza penale ai sensi del comma 13 dell’art. 10-bis.
Considerazioni conclusive
In definitiva, la nuova statuizione di non punibilità dell’elusione fiscale contenuta nel comma 13 dell’art. 10-bis comporta l’irrilevanza penale, non solo delle contestazioni di elusione, ma anche di quelle contestazioni che, pur non essendo presentate come tali, si concretino nel disconoscimento degli effetti giuridici di atti che presentino una forma giuridica rispondente alla fattispecie legale sulla base dell’assunto che tali atti siano privi della relativa sostanza economica, avendo per scopo essenziale il conseguimento di un risparmio d’imposta indebito[23].
Note:
[1] L’art. 10-bis non parrebbe a prima vista richiedere che le operazioni poste in essere dal contribuente abbiano ex ante per scopo l’ottenimento di un risparmio d’imposta indebito in quanto è letteralmente formulata nel senso di considerare sufficiente che tali operazioni abbiano consentito ex post il realizzo di tale risparmio d’imposta. Sennonché un’interpretazione costituzionalmente orientata di tale disposizione impone di ritenere che tale requisito sia ancora previsto, posto che la delega vincolava il Governo, non solo ad attuare la revisione del sistema fiscale nel rispetto del diritto della UE, tenendo conto quindi dell’orientamento della Corte di Giustizia secondo cui l’abuso del diritto presuppone “lo scopo di ottenimento di un vantaggio fiscale”, ma anche a “considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva”. Del resto, lo stesso Governo nella relazione illustrativa ha riconosciuto che il perseguimento dei vantaggi fiscali indebiti “deve essere stato lo scopo essenziale della condotta stessa”.
[2] La qualificazione come vantaggi fiscali indebiti dei “benefici… realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” rischia di trasformare l’art. 10-bis in una norma impositiva parzialmente “in bianco” in quanto le “finalità” delle norme fiscali non sono di regola individuate, non solo nel testo normativo, ma anche nei relativi lavori preparatori, mentre i principi relativi ai singoli tributi non sono di regola codificati.
[3] Cass., Sez. trib., 26 ottobre 2005, n. 20816, Id., 14 novembre 2005, n. 22932 e Id., SS.UU., 26 giugno 2009, n. 15029, seppur solo incidentalmente anche Cass., Sez. trib., 26 febbraio 2014, n. 4618.
[4] CGE 29 giugno 2000, causa C-455/98, Salumets, nello stesso senso CGE 29 giugno 1999, causa C-158/98, Coffeeshop Siberië e 11 giugno 1998, causa C-283/95, Fischer.
[5] CGE 6 luglio 2006 C-439/04 e C-440/04, Kittel e Recolta Recycling.
[6] Cass. pen. 6 settembre 2013, n. 36859 e Cass. 4 marzo 2008, n. 13975.
[7] Cass. 7 ottobre 2015, n. 40272.
[8] È stato ad esempio contestato che un’operazione di acquisto mediante indebitamento delle partecipazioni possedute da soci persone fisiche in una società holding da parte di altra società holding controllata dagli stessi soci posta in essere per inserire una sub–holding nella catena di controllo sia antieconomica e pertanto siano indeducibili gli oneri finanziari derivanti da tale indebitamento.
[9] Cass. 30 ottobre 2001, n. 13478; nello stesso senso fra le tante: Cass. 27 settembre 2000, n. 12813; Id., 9 febbraio 2001, n. 1821, Id., 17 settembre 2001, n. 11645, Id., 23 aprile 2002, n. 10802, Id., 3 maggio 2002, n. 6337, Id., 22 maggio 2002, n. 7487; Id., 6 dicembre 2011, n. 26167; Id., 20 gennaio 2015, n. 1010; Id., 4 marzo 2016, n. 4345.
[10] Cass. 27 settembre 2013, n. 22132.
[11] Cass. 4 marzo 2016, n. 4345.
[12] Cass. 10 giugno 2011, n. 12788, nello stesso senso, fra le altre: Cass. 30 dicembre 2015, nn. 26057 e 26058; Id., 28 ottobre 2015, n. 21952; Id., 9 ottobre 2015, n. 20250; Id., 25 marzo 2015, n. 5937, Id., 8 ottobre 2014, n. 21190, Id., 10 gennaio 2013, n. 450; Id., 10 gennaio 2013, n. 449, Id., 9 dicembre 2009, n. 25726; contra Cass. 15 aprile 2011, n. 8671 e Id., 3 aprile 2000, n. 3979.
[13] Il mantenimento a pag. 6 della relazione illustrativa della precisazione secondo cui l’interpello antiabuso che “costituisce il nuovo strumento … attraverso il quale il contribuente può chiedere all’amministrazione se le operazioni che intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto … – anche in considerazione del comune fondamento – può essere attivato dal contribuente per conoscere il parere dell’amministrazione in relazione alle ipotesi di interposizione, ai sensi del comma 3 dell’art. 37” a questo punto deve essere considerata come frutto di un mero refuso.
[14] Cass. 30 dicembre 2015, nn. 26057 e 26058.
[15] Cass. 7 febbraio 2013, n. 2869.
[16] Cass. 30 ottobre 2015, n. 43809.
[17] Cass. 7 febbraio 2013, n. 2869.
[18] Cass. 8 ottobre 2014, n. 41947.
[19] Risoluzione 30 giugno 2009, n. 168/E.
[20] Cass. n. 16183/2014.
[21] Cass. pen. 22 novembre 2011, n. 7739.
[22] Cass. 2 ottobre 2014, n. 2006.
[23] Sebbene in materia di imposta di registro non siano previste sanzioni penali si rileva anche che la riqualificazione ai fini di tale imposta delle operazioni di conferimento di un ramo di azienda in una società di capitali e della successiva cessione della partecipazione di controllo nella predetta società ad altra società come una vendita di ramo di azienda da parte della cedente a favore della società cessionaria della partecipazione ridonda in una contestazione di abuso del diritto fiscale per il fatto che comporta il disconoscimento degli effetti giuridici di tali atti, essendo indubbio che tale ramo di azienda è giuridicamente acquistato in via esclusiva dalla società di capitali conferitaria.
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