Essendo oramai trascorso più di un mese dalla pubblicazione della sentenza della CEDU sul caso Italgomme ed altri c. Italia occorre a questo punto chiedersi quali strumenti di difesa possa offrire ai contribuenti destinatari di atti impositivi emessi in esito a verifiche fiscali la statuizione di tale giudice secondo cui la disciplina delle predette verifiche viola il diritto fondamentale al domicilio, non garantendo il rispetto del principio di legalità.
La recente sentenza della CEDU del 6 febbraio 2025, Italgomme ed altri c. Italia, fotografa fedelmente gli esiti di un processo di erosione delle garanzie, pur limitate, accordate dalla legge e al contribuente in materia di verifiche fiscali nei locali aziendali e professionali avviato anni fa con l’affermazione del principio secondo cui la violazione di tali garanzie non comporta né la nullità degli atti impositivi emessi, né l’inutilizzabilità delle prove acquisite in esito a tali verifiche, poiché non è sancita dalla legge e non violerebbe alcun diritto fondamentale, ivi compreso il diritto al domicilio.
In particolare, con tale sentenza la CEDU, dopo aver ribadito che il diritto fondamentale alla tutela del domicilio sancito dall’art. 8 della Convenzione può essere invocato anche per il domicilio aziendale e professionale, come statuito dalla CGUE, e che le verifiche fiscali costituiscono un’interferenza nel suo esercizio, ha concluso che la normativa italiana che disciplina tali verifiche, per come è stata interpretata dalla giurisprudenza della Cassazione, viola tale diritto per il fatto che non garantisce il rispetto del principio di legalità.
In primo luogo, la disciplina dell’autorizzazione all’avvio di verifiche fiscali non rispetta tale principio in quanto, secondo la giurisprudenza della Cassazione, tale autorizzazione sarebbe richiesta solo per l’Agenzia delle Entrate e non per la Guardia di Finanza, non è prescritta “alcuna giustificazione specifica per autorizzare le misure in questione in relazione a locali adibiti a scopi commerciali e industriali, e … pertanto, l’autorizzazione … non doveva essere motivata” e l’illegittimità dell’autorizzazione “non pregiudica la validità dell’avviso di accertamento definitivo né la possibilità di utilizzare come prova i documenti acquisiti con il provvedimento impugnato, salvo il caso in cui non vi sia stata alcuna autorizzazione” (par. 109). Ed infatti, ad avviso della Cassazione medesima, l’autorizzazione sarebbe un “mero requisito procedurale“, “non è richiesta alcuna motivazione” e la sua illegittimità “per motivi formali o sostanziali … non pregiudica la validità dell’avviso di accertamento definitivo o l’utilizzo di documenti e prove acquisiti con i provvedimenti impugnati con il consenso del contribuente” (par. 64).
In secondo luogo, la CEDU ha ritenuto che anche la disciplina dei poteri esercitabili dall’AF nelle verifiche fiscali non rispetta il principio di legalità in quanto, secondo la giurisprudenza di Cassazione, non è “… prevista la possibilità di rimuovere o dichiarare altrimenti inammissibili i documenti e gli elementi non connessi all’oggetto delle misure impugnate … ai fini dell’accertamento fiscale, come prova a carico del contribuente”. Ed infatti, ad avviso della Cassazione, “la portata delle prove e dei documenti che possono essere acquisiti dalle autorità nazionali non è limitata a quelli relativi agli esercizi fiscali oggetto di audit o a specifiche violazioni, ma può estendersi a qualsiasi altro documento che le autorità che attuano le misure possano ritenere pertinente (cfr. paragrafo 62 sopra)” (par. 116). Pertanto, la CEDU si è detta non convinta che la disciplina italiana delle verifiche fiscali nei locali aziendali e professionali “abbia fornito garanzie adeguate ed efficaci contro l’Autorità fiscale e la Guardia di Finanza … in quanto in relazione all’accesso e alle ispezioni, il loro potere di valutare l’adeguatezza, il numero, la durata e la portata di tali operazioni e delle informazioni richieste ai contribuenti e poi copiate o sequestrate non era regolamentato” (par. 120).
In terzo luogo, la CEDU ha escluso che la disciplina italiana accordi anche un effettivo rimedio giurisdizionale ex post per tutelare i contribuenti da atti arbitrari dell’AF in quanto “l’esistenza di un ricorso è meramente potenziale e incerta, così come la sua accessibilità” non solo perché, secondo la giurisprudenza della Cassazione, può essere esperito soltanto quando dopo anni sia emesso un atto impositivo davanti al giudice tributario, ma anche perché l’Italia non è stata in grado di documentare alcun caso di ricorso diretto davanti al giudice civile se non nel caso in cui l’autorizzazione “era stata rilasciata da un pubblico ministero per residenze private”.
Comunque, a suo avviso, la questione relativa all’esistenza di un rimedio giurisdizionale ex post potrebbe essere riconsiderata soltanto una volta che “la portata dei poteri di controllo attribuiti all’Agenzia delle Entrate sia stata effettivamente limitata per quanto riguarda le verifiche contabili effettuate nei locali commerciali e … professionali” evidentemente perché, laddove la legge conferisce all’AF un potere discrezionale illimitato, non può avere senso svolgere un controllo di legalità sull’esercizio di tale potere.
Sulla base delle considerazioni appena esposte la CEDU ha concluso che, “anche tenendo conto dell’ampio margine di discrezionalità degli Stati contraenti nei confronti delle persone giuridiche … il contesto giuridico interno” ha “conferito alle autorità nazionali un margine di discrezionalità illimitato per quanto riguarda sia le condizioni di attuazione delle misure controverse, sia per quanto riguarda l’ambito di applicazione di tali misure” e non ha previsto un effettivo rimedio giurisdizionale neppure ex post. Pertanto, la disciplina italiana in materia di verifiche fiscali, per come è stata interpretata dalla giurisprudenza di Cassazione, viola il diritto alla tutela del domicilio sancito dall’art. 8 della CEDU in quanto non garantisce il rispetto del principio di legalità, non fornendo un’adeguata tutela dalle ingerenze nel predetto diritto derivanti dall’esecuzione delle predette verifiche. In virtù di tale considerazione la CEDU ha richiamato, da un lato, il legislatore italiano ad attuare i principi generali enunciati nello Statuto del contribuente “mediante norme specifiche nel diritto interno” e, dall’altro lato, la Cassazione ad allineare la sua “giurisprudenza … a tali principi e a quelli stabiliti dalla Corte”.
Ebbene, la sentenza della CEDU, recando un chiaro e perentorio accertamento del contrasto della disciplina italiana delle verifiche fiscali con il principio di legalità, impone di interrogarsi sulle conseguenze che ne derivano in termini giuridici almeno fino a che tale disciplina non sarà rivista.
Innanzitutto v’è da chiedersi se le disposizioni che disciplinano le verifiche fiscali nelle materie non armonizzate non siano costituzionalmente illegittime per la violazione del diritto al domicilio sancito dell’art. 14 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, nonché, nelle materie armonizzate, meritevoli di disapplicazione per la violazione del diritto al domicilio sancito dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 8 della CEDU per il fatto che le predette disposizioni forniscono una regolamentazione inadeguata dei poteri dell’AF in materia di verifiche fiscali.
L’illegittimità costituzionale ovvero la disapplicazione di tali disposizioni sarebbe da escludere laddove la Cassazione fornisse delle predette disposizioni un’interpretazione che le rendesse conformi al principio di legalità.
Potrebbe essere questo il caso dell’art. 35 della legge n. 4/1929, che accorda agli “ufficiali o agenti della polizia tributaria … facoltà di accedere in qualunque ora negli esercizi pubblici e in ogni locale adibito ad un’azienda industriale o commerciale ed eseguirvi verificazioni e ricerche”, in quanto tale disposizione sembra potersi ritenere derogata tanto dal secondo comma dell’art. 33 del d.P.R. n. 600/1973, quanto dai commi 4 e 5 dell’art. 2 del d.lgs. n. 68/2001, recante disposizioni di “Adeguamento dei compiti del Corpo della Guardia di finanza“, nonché del primo comma dell’art. 52 del d.P.R. n. 633/1972 laddove statuisce che “gli impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono”, in quanto a tale autorizzazione sembra possa essere riconosciuta una valenza esterna in difetto di un’espressa indicazione in questo senso.
Tuttavia, l’illegittimità costituzionale o la disapplicazione potrebbe essere contestata per tutte quelle disposizioni che non siano suscettibili di un’interpretazione conforme al principio di legalità, posto che non solo l’art. 8 della CEDU, ma anche l’art. 7 della Carta e l’art. 14 Cost. estendono la tutela del domicilio anche ai locali aziendali e professionali.
Potrebbe essere questo il caso del nono comma dell’art. 52 del d.P.R. n. 633/1972 in quanto tale disposizione, non solo non individua i “supporti” che l’AF può elaborare fuori dei locali aziendali, ma non reca alcuna disciplina delle modalità con cui può essere eseguita la predetta elaborazione, nonché delle garanzie accordate al contribuente.
Ed ancora, v’è da chiedersi se possono ritenersi legittimi gli atti impositivi che siano stati emessi in esito a verifiche fiscali condotte senza alcuna autorizzazione ovvero in difformità dell’autorizzazione concessa.
Non del tutto chiaro risulta se questo interrogativo non possa esser risolto in senso positivo già in forza del nuovo art. 7-bis dello Statuto del contribuente almeno per gli atti emessi a partire dalla data in cui ha trovato effetto e cioè dal 18 gennaio 2024 laddove, stabilendo che “gli atti dell’amministrazione finanziaria impugnabili dinanzi agli organi di giurisdizione tributaria sono annullabili per violazione di legge, ivi incluse le norme … sul procedimento e sulla validità degli atti”, considera nulli gli avvisi di accertamento emessi in violazione di legge.
Tuttavia, l’emissione di atti impositivi in esito a verifiche fiscali condotte nei locali aziendali e professionali senza od in difformità dall’autorizzazione dovrebbe comunque dar luogo alla configurabilità di una violazione del diritto fondamentale al domicilio. Ed infatti, l’autorizzazione di un accesso presso tali locali, rappresentando un’ingerenza nel predetto diritto, è posta a sua diretta salvaguardia, consentendo di evitare l’esposizione del contribuente a verifiche arbitrarie.
Infine, v’è da chiedersi se non siano inutilizzabili in sede amministrativa o giudiziale anche prove che siano state acquisite in assenza di una previsione di legge ovvero in difformità della previsione di legge che legittimi tale acquisizione.
Questo interrogativo non può che avere risposta positiva già in forza dell’art. 7-quinquies dello Statuto del contribuente per le prove acquisite a partire dalla data in cui ha trovato effetto e cioè dal 18 gennaio 2024, in quanto tale disposizione, statuendo che “non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova … in violazione di legge”, colpisce espressamente con la loro inutilizzabilità l’acquisizione di prove in violazione di qualunque disposizione di legge.
Ma la risposta dovrebbe essere positiva anche per le prove acquisite prima della predetta data in quanto anche in tali casi si configurerebbe una violazione del diritto fondamentale al domicilio. Ed infatti, le disposizioni relative all’acquisizione delle prove nel corso di verifiche fiscali sono poste a diretta salvaguardia di tale diritto. Del resto, è orientamento consolidato della giurisprudenza della Cassazione che l’acquisizione delle prove in violazione anche del diritto al domicilio comporti la loro inutilizzabilità (per tutte Cass. 25 novembre 2021, n. 36597).
Potrebbe essere questo il caso di corrispondenza elettronica acquisita mediante copia di hard disk e server collocati nei locali aziendali, posto che il nono comma dell’art. 52 del d.P.R. n. 600 non reca alcuna disciplina delle modalità con cui può essere eseguita tale acquisizione e delle garanzie riconosciute al contribuente.
Naturalmente, le violazioni del diritto al domicilio commesse nel corso di verifiche fiscali potranno essere contestate mediante la presentazione di un ricorso alla CEDU avverso gli atti con cui siano state eseguite e le sentenze definitive che le abbiano convalidate.
L’accertamento della CEDU della non rispondenza al principio di legalità della disciplina delle verifiche fiscali apre dunque la strada alla contestazione in giudizio delle violazioni del diritto fondamentale al domicilio che sono state commesse o saranno commesse nell’applicazione di tale disciplina sulla base della disciplina vigente. Non può infatti ammettersi che in Italia sia adottato in sede legislativa o giurisprudenziale uno standard di tutela del principio di legalità inferiore a quello assicurato dalla CEDU, costituendo tale principio l’essenza dello stato di diritto.
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